Cuba: i fattori che hanno fatto esplodere la fame e la questione sociale

A novanta miglia dalla costa americana non ci sono più salve intere di missili pronti al lancio su Washington. C’è qualcosa di peggio: una santabarbara pronta a saltare in aria per appiccare un incendio proprio dentro il sistema politico americano. Cuba è l’ultimo avamposto di un comunismo che nemmeno più a se stesso è riuscito a sopravvivere. La dittatura è morta da trent’anni, e non lo sa. Un leviatano inesistente come il cavaliere di Italo Calvino, che si tiene insieme per la pura e semplice forza di volontà ma proprio per questo è in grado di nuocere e nuocere assai.

Il problema, adesso che l’isola è scossa dalla peggiore ondata di proteste di piazza della sua storia recente, è gestire quella che si prospetta come la fase finale del male: evitando, cioè, che divenga letale. Finora Joe Biden, non certo l’idolo dei conservatori statunitensi, non ha toccato di un millimetro la politica reintrodotta da Donald Trump. Vale a dire: embargo duro e nessun dialogo. Il contrario di quello che aveva fatto Obama in sintonia, ricordiamolo, con un altro latinoamericano di grande rilievo internazionale. L’irrigidimento della Casa Bianca e il Covid hanno, in effetti, fatto esplodere la fame e con essa la questione sociale. Si dirà: ottimo, mai il regime è stato così debole.

Il regime, in effetti, non è mai stato così debole, e rischia di crollare insieme a tutti i suoi filistei. Domanda: ma è di un crollo che si ha bisogno? Quando cadde il comunismo, nell’89, al Cremlino c’era Mikhail Gorbaciov, e di questo dovremmo essere grati, perché lasciò andare ramengo il suo impero pur di non provocare deflagrazioni internazionali. Ma si sa che quello che non fanno i grandi, lo combinano i piccoli: è la storia del Dottor Stranamore. E un Dottor Stranamore è quello che adesso siede sullo scranno che fu di Fidel Castro: piccolissimo al confronto, sicuramente proprio per questo ancor più oltranzista. Si tratta di disinnescarlo prima che combini guai. Il crollo scatenerebbe, con ogni probabilità, una vera e propria guerra civile che, temiamo, sia proprio quello che qualche nostalgico di Batista ora in esilio a Miami attende con ansia. La rivincita della Baia dei Porci. Rimarrebbe in piedi ben poco, allora, di Cuba.

L’alternativa è un sapiente dosaggio di diplomazia, politica, fermezza e flessibilità per depotenziare il regime senza dargli la possibilità di scatenare alcun tipo di reazione. Come in Polonia, dove si ebbe prima la scarcerazione di Walesa, poi il tavolo di trattative tra governo comunista e opposizione, quindi l’accordo sulle elezioni politiche. In fondo una “salida pactada” che innescò il circolo virtuoso della fine della Guerra Fredda. Certo, all’inizio potrebbe essere necessario un passo apparentemente incomprensibile, tipo il ritiro parziale dell’embargo. Ma intanto la gente potrebbe ricominciare se non a vivere, almeno a non morire. Poi ricordiamocelo: l’inizio della fine dell’Urss fu quella Conferenza di Helsinki che aprì le porte del Patto di Varsavia alla penetrazione dei valori occidentali, e quelle dei granai americani al piccolo consumatore sovietico. Che quando si trattò anni dopo di dire addio ai vecchi miti, preferì loro di gran lunga McDonald’s. Che non è un granché, ma è sempre meglio di un gulag.

Ci vorrà tempo, ma ricordiamoci che Kennedy dopo la Baia dei Porci mostrò di capire, e con il Cremlino scelse la dottrina della risposta flessibile. E di flessibilità, anche con Cuba, ce ne vorrà tanta. Nel frattempo, per favore, evitiamo almeno in Italia il solito tifo da stadio e la politica dell’indice puntato contro l’altro. Di illusi in buona fede e scherani in cattiva ce ne sono stati tanti, troppi, e magari ce ne sono ancora. Ma anche di illusi e scherani con qualche scheletro nell’armadio che ora si atteggiano a campioni della libertà. Come si legge negli annunci delle vendite immobiliari: si prega astenersi perditempo. Ah, ecco: proprio così.