Editoriale

Covid, ecco come evitare il ricovero in ospedale

Siamo in una fase cruciale della lotta al virus. Con l’abbassarsi delle temperature e l’approssimarsi della stagione fredda e quindi con la possibilità di maggiori e più frequenti contatti in luoghi chiusi, è più che probabile si assista ad un aumento, anche importante, dei contagi che peraltro sono già segnalati, proprio da alcuni giorni, in crescita. Per questo motivo, è essenziale che sul modello già abbondantemente collaudato per l’influenza stagionale, si provveda a mettere in sicurezza con il secondo richiamo effettuato con il vaccino bivalente i soggetti fragili per età e patologie sottostanti, che sono più a rischio di forme gravi di COVID-19.

Allo stesso tempo, sarà altresì importante guardare a questa nuova fase epidemica con occhi diversi da quelli a cui eravamo abituati in passato, prendendo atto che la situazione è radicalmente mutata rispetto a quella che era nel 2020 e 2021. Per questo motivo, bisognerà veicolare alla popolazione generale messaggi più incentrati sull’impatto dei ricoveri in ospedale ed in terapia intensiva, distinguendo quelli “per”, da quelli “con” COVID-19, piuttosto che sul mero numero dei contagi. Questo nuovo approccio di monitoraggio dei contagi (che potrebbe non essere più quotidiano ma settimanale) forse consentirà di disporre di un quadro più aderente all’attuale realtà epidemiologica, che vede al momento la circolazione di una variante virale (Omicron 5) più trasmissibile, ma meno grave.

Una delle domande che attualmente più ricorre nell’opinione pubblica, specie in questo momento in cui vengono proposti i richiami della vaccinazione, è quale sia l’incidenza della malattia COVID-19 dopo la vaccinazione ed il richiamo con vaccini a mRNA o a vettore adenovirale. Per rispondere a questa domanda è stato condotto uno studio di coorte retrospettivo dal luglio 2021 al maggio 2022 presso la Veterans Health Administration statunitense, in cui è stata valutata l’incidenza di forme gravi di malattia in diversi gruppi di pazienti, tutti affetti da forme severe di COVID-19 (J. Daniel Kelly e altri). La conclusione a cui giunge questo articolo è che in un momento di predominanza delle varianti Delta ed Omicron c’è stata una bassa incidenza di ospedalizzazione o di evento morte dopo la vaccinazione primaria, completata dal richiamo con uno qualsiasi dei vaccini a mRNA o a vettore adenovirale.

Le caratteristiche degli adulti in Scozia che non sono vaccinati contro COVID-19, è stato oggetto di una ricerca che ha evidenziato come la maggior parte di essi viva in contesti urbani e risieda in aree dove il 20% di popolazione viene considerato socialmente svantaggiato. Inoltre, dai registri dei medici di base, risulta che la maggior parte dei non vaccinati non presenta co-morbidità e quelle più frequentemente riportate sono: le malattie respiratorie croniche, la depressione e l’ipertensione (Safraj Shahul Hameed e altri). Una percentuale non piccola della popolazione scozzese risulta quindi essere ancora non vaccinata, (oltre 800 mila persone su una popolazione totale di oltre 4 milioni) e per questo motivo identificare i predittori dello status di non vaccinato potrebbero aiutare a meglio indirizzare la futura strategia vaccinale.

Uno studio di fase 2 e 3 ha confrontato il vaccino bivalente Moderna (mRNA Wuhan e Omicron 1) con il vaccino monovalente originale (solo Wuhan) somministrato come secondo richiamo agli adulti che avevano ricevuto una vaccinazione primaria, più una dose di richiamo. Il vaccino bivalente ha prodotto una risposta anticorpale neutralizzante contro Omicron 4 e 5 superiore a quella stimolata dal vaccino originale, senza che fossero evidenti problemi di sicurezza ad esso legati (Spyros Chalkias e altri). L’impatto della pandemia COVID-19 sulla chetoacidosi diabetica è stato oggetto di uno studio multicentrico internazionale che ha coinvolto 13 nazioni in Europa, America ed Australia. Dai dati risulta che durante la pandemia COVID-19 c’è stato un aumento della prevalenza della chetoacidosi diabetica e delle diagnosi di diabete di tipo 1 nei bambini, il che sottolinea la necessità di effettuare una diagnosi precoce e tempestiva del diabete di tipo 1 in questa fascia di età (Niels H Birkebaek).

Prof. Roberto Cauda

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