Dalla Città Proibita alla Tauride: la mossa del Dragone

Gli americani, si sa, non considerano molto la storia: domani è un altro giorno. I russi ne hanno una visione nazional-messianica, talvolta apocalittica. I cinesi la scandiscono in chiave secolare, se non millenaria, e non bisogna stupirsene: da noi c’erano ancora le guerre puniche che loro avevano già unificato il loro Paese. Cos’è allora la visita a Mosca di Xi Jinping? Un apostrofo rosa tra le parole “t’amo”, verrebbe da dire a giudicare dai risultati più evidenti. Ma sono anche i risultati più superficiali perché, per l’appunto, quando c’è di mezzo Pechino oggi è ieri, e domani mille anni fa.

Quando Mao smise di sparare sul quartier generale perché lo aveva conquistato – era la fine del 1949 – la prima cosa che fece fu prendere il treno e presentarsi al Cremlino, dai compagni bolscevichi. Voleva un riconoscimento, ebbe quasi uno schiaffo: Stalin gli fece fare un’anticamera di un mese, poi lo liquidò con sufficienza. Ancora adesso si legge che quella fu la premessa dello strappo successivo tra i due colossi comunisti; in realtà fu un episodio in una partita iniziata molti ma molti decenni prima.

Al Cremlino Putin ha accolto Xi in modo ben diverso, e l’ospite cinese ha contraccambiato la cortesia con un’apertura diplomatica che per le orecchie russe è pura musica. In Ucraina le cose non vanno bene, l’offensiva non ha sfondato nonostante i ripetuti annunci e tra poco inizia la stagione del fango, che bloccherà l’avanzata in attesa della già preannunciata (dagli americani) controffensiva di primavera. Niente di meglio, a questo punto, di un time-out: in attesa che arrivino i coscritti della nuova mobilitazione per una nuova carneficina. Xi offre graziosamente l’aiuto, ma intanto crea il principio che sarà lui a mettere parola nelle dispute armate tra il vicino e le sue ex province. Già se ne profilano di esplosive, di queste dispute, in quella terra gorgogliante di tensioni che va dalla Crimea al Caucaso. Nessuno avrebbe potuto immaginarlo fino allo scorso anno: dalla Città Proibita alla Tauride, con gli eredi dei Romanov costretti a dare il loro assenso.

Basta questa considerazione per capire quanto sia costata a Putin l’avventura ucraina e quanto potrebbe costargli in futuro. Gli Usa puntano a concludere la partita alla fine dell’estate, perché la ricostruzione possa coincidere con la campagna elettorale delle prossime presidenziali, ma loro pensano solo al domani. La Russia, salvo possibili sorprese, sta accettando un ruolo di subalternità che non stenterà a far sentire il suo peso sulle sue insofferenti spalle: è solo questione di tempi e limiti di sopportazione. Ma la crisi tra i due giganti è già prevedibile, sebbene non se ne conosca il quando.
Potrebbe essere tra molto tempo, non è da escludere: dipenderà anche dall’eventuale successo o insuccesso delle iniziative cinesi a livello diplomatico, come dalla sensazione nell’opinione pubblica russa di essere passati dalla Terza Roma alla periferia di Pechino.

Però qualcosa accadrà, perché è già accaduto nel passato, quindi domani. Era il 1954. I francesi, appena sconfitti dai comunisti a Dien Ben Phu, proposero nelle trattative di pace la divisione in due del Vietnam: il nord ai comunisti, il sud a loro. A sorpresa il leader comunista, Ho Chi Min, accettò; eppure avrebbe potuto avere tutto il Paese, se avesse continuato a combattere. Venne aspramente criticato per questo in sede di Comitato Centrale del Partito Comunista. Lui rispose: “Non capite niente, pazzi! Meglio sentire per qualche anno la puzza dei francesi che spalare per mille anni lo stallatico dei cinesi”. Vent’anni dopo i suoi eredi avevano tutto il Vietnam. Ne passarono altri cinque ed arrivarono i cinesi. La colpa di Putin, pare, è nel non aver preso il sentiero di Ho Chi Min, e per cacciare Ue e Nato dall’Ucraina, alla fine ha fatto arrivare sotto casa qualcuno di molto più difficile da gestire.