La Chiesa accoglie, non esclude. La difesa della vita è Vangelo di prossimità

Mai quanto ora c’è bisogno di una Chiesa in uscita, che esca dall’abitudine del “si è sempre fatto così”, costituita da cristiani più gioiosi di condividere il Vangelo, non solo all’interno delle quattro mura, ma in qualsiasi occasione sia possibile e opportuno farlo. Sin dai primi giorni della pandemia moltissime persone si sono impegnate a custodire ogni vita, sia nell’esercizio della professione medica e sanitaria, sia nelle diverse espressioni del volontariato, sia nelle forme semplici del vicinato solidale. Alcuni hanno pagato un prezzo molto alto per la loro generosa dedizione. A tutti va la nostra gratitudine e il nostro incoraggiamento: sono loro la parte migliore della Chiesa e del Paese; a loro è legata la speranza di una ripartenza che ci renda davvero migliori.

Non sono mancate, tuttavia, manifestazioni di egoismo, indifferenza e irresponsabilità, caratterizzate spesso da una malintesa affermazione di libertà e da una distorta concezione dei diritti. Molto spesso si è trattato di persone comprensibilmente impaurite e confuse, anch’esse in fondo vittime della pandemia; in altri casi, però, tali comportamenti e discorsi hanno espresso una visione della persona umana e dei rapporti sociali assai lontana dal Vangelo e dallo spirito della Costituzione.

Anche la affermazione del “diritto all’aborto” e al “suicidio assistito” e la prospettiva di un referendum per depenalizzare l’omicidio del consenziente vanno nella medesima direzione. Ha detto il cardinale Bassetti presidente della Cei: “Senza voler entrare nelle importanti questioni bioetiche e giuridiche implicate, è necessario ribadire che non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire. Chi soffre va accompagnato e aiutato a ritrovare ragioni di vita; occorre chiedere l’applicazione della legge sulle cure palliative e la terapia del dolore”. Il vero diritto da rivendicare è quello che ogni vita, terminale o nascente, sia adeguatamente custodita. Mettere termine a un’esistenza non è mai una vittoria, né della libertà, né dell’umanità, né della democrazia: è quasi sempre il tragico esito di persone lasciate sole con i loro problemi e la loro disperazione. La risposta che ogni vita fragile silenziosamente sollecita è quella della custodia e del prendersi cura.

Quando una persona è accolta, accompagnata, sostenuta, incoraggiata, ogni problema può essere superato o comunque fronteggiato con coraggio e speranza. L’attuale precomprensione antropologica della morte è premessa indispensabile per un corretto inquadramento dei problemi etici del fine vita e del morire. La morte oggi spesso è trattata come la fine della malattia, e, quando la malattia “inguaribile”, ma non “incurabile” smentisce l’immagine di una medicina salvatrice, la morte è negata, nascosta, mistificata perché rappresenta un non-senso. In questa ottica la richiesta del suicidio assistito, dell’eutanasia, dell’omicidio della persona consenziente è la più immediata via d’uscita che si presenta al morente e a chi l’attornia. In diversi casi il soggetto a cui togliere le sofferenze fisiche o psichiche non è il malato, ma chi deve assisterlo. Bisogna ricordare che il morire è questione che riguarda singolarmente ciascuno di noi, ma mai puramente individuale, nel senso che accade all’interno di una trama di relazioni, che la progressiva complessità dei rapporti sociali rende ancora più ricca ed estesa.

L’Ecclesia offre testimonianza del Vangelo di prossimità. Alla Chiesa si chiede di essere aperta, accogliente, inclusiva, controcorrente, ma fedele alla rivoluzione del Vangelo. Ci si sente in comunione con la Chiesa quando si incontrano sacerdoti, operatori pastorali, catechisti che sappiano ascoltare, accogliere, comprendere i bisogni e non giudicare”. I tempi attuali ci richiamano tutti ad un impegno comune per fare della comunità ecclesiale la famiglia di Dio che vive nella comunione a servizio della nuova evangelizzazione. E per costruire una città terrena nella autentica libertà dei figli di Dio, nella fraternità universale, nella pace rispettosa della giustizia, nella testimonianza della carità che rifletta l’amore del Dio vivente nella Comunione Trinitaria.

Per quanto riguarda i rapporti fra chierici e laici si auspica il superamento del clericalismo, che impedisca che i presbiteri si considerino padroni della fede delle persone e non collaboratori della loro gioia (cfr. 2 Cor.1,24). Si richiede che i parroci siano vicini a tutti i parrocchiani e non solamente al circolo chiuso dei loro stretti collaboratori. Bisogna aiutare i fedeli a riscoprire il dono della fede battesimale e la sua importanza, nella consapevolezza che la vocazione cristiana è per sua natura vocazione alla missione. Viene richiesta un’apertura ai problemi del territorio a partire dalla Dottrina sociale della Chiesa, che aiuti ad affrontare temi come ad esempio l’ecologia, la politica e altre questioni sociali per rendere attuale il Vangelo nella nostra società.