Chi rappresenta gli operai in Italia oggi?

Chi rappresenta in Italia gli operai? È questo un interrogativo che ogni tanto cerca di farsi largo nel dibattito politico, ma difficilmente ha trovato la necessaria chiarezza: la sinistra è imbarazzata dal progressivo distacco del lavoro dipendente dalle sue bandiere pur essendo stato l’elemento costitutivo d’origine della sua esperienza per tutto il “900”; la destra anch’essa non trova conveniente chiarirlo, condizionata com’è dal suo tradizionale ancoraggio in altri ceti. Ma soprattutto in Italia, nell’ultimo quarto di secolo, il consenso della classe operaia ha preso l’abbrivio dei partiti populisti. Questo cambiamento, sia chiaro, ha motivazioni precise; come ogni fenomeno presenta fattori molteplici che hanno influito ed influiscono su questo forte cambiamento avvenuto.

In primo luogo la globalizzazione che ha comportato una corposa immissione di nuovi paesi nella divisione internazionale in cerca di farsi valere con una offerta più conveniente per la domanda, che ha indebolito la crescita del salario ed interrotto l’idea consolidata di un “sol dell’avvenire” intramontabile. A questo fenomeno non si è contrapposta la necessaria e sufficiente crescita della qualità dei prodotti per scarsi investimenti, per i processi di cambiamento e per carenti politiche di professionalizzazione, che espongono i salari a compressioni pericolose.

Non è un caso la rilevazione statistica della perdita di 2 punti percentuali rispetto ai salari di trent’anni fa, mentre nello stesso periodo, i tedeschi e francesi che hanno sufficientemente sostenuto la qualità delle produzioni, hanno ottenuto al contrario 30 punti percentuali in più. Anche la vicenda fiscale, con il costante e ingiustificato aumento nelle buste paga, ha indebolito il reddito del lavoro dipendente, mentre nel contempo altri ceti hanno spesso potuto attutire la pressione fiscale con innumerevoli vie d’uscita al contrario di chi come i lavoratori dipendenti hanno la ritenuta alla fonte. Insomma la Sinistra italiana è stata molto impegnata ideologicamente sul lavoro tendendo alla conservazione delle proprie posizioni sempre più inadeguate a fronteggiare le sfide della modernità, dall’altra nel tentativo di guadagnare il consenso di altri ceti, ha dato la sensazione dell’abbandono.

Dunque le nuove preferenze elettorali degli operai, comunque instabili, vengono spinte dal senso di vendetta verso chi si ritiene li abbia abbandonati. Anche le oggettive istigazioni contro “gli stranieri” descritti come chi viene a rubare il lavoro che manca fa il resto. Questa realtà così squilibrante comunque dovrà essere affrontata se desideriamo davvero giustizia sociale e coesione comunitaria.

La questione salariale sarà il vero banco di verifica del necessario cambiamento da ottenere. Si potrà ottenere risultati attraverso una riduzione sensibile dei carichi fiscali e premiando con zero tasse sul salario ancorato alla produttività e maggior lavoro. Si potrà altresì ripristinare buonsenso e logica che ora non ci sono, pagando di più i lavori precari ed allestendo un welfare più generoso per chi lavora in settori più impegnativi non stanziali. Infatti il lavoro flessibile, così tanto importante per le modalità di lavoro moderne, è presto scivolato nella precarietà proprio perché pagato meno di chi precario non è, e con striminzite garanzie sociali. In definitiva un tradimento dei fondamenti naturali verso chi lavora. Per queste ragioni, il cambiamento di approccio e disponibilità a curare ciò che è stato fatto deteriorare, ha un valore morale e politico di grande importanza.