Burocrati senza pietà

Don Oreste Benzi amava ricordare un episodio del suo primo periodo da apostolo della carità. Nel ’50 accompagnò un giovane papà disoccupato da un parlamentare, con la speranza di potergli trovare un lavoro. Nel colloquio si affrontarono questioni elevate, intricate, nel totale mutismo del bisognoso che al termine dell’incontro si rivolse in stretto dialetto romagnolo a don Oreste. “Io di quello che avete detto non ho compreso niente, però ho capito solo una cosa: di noi, voi potete fare tutto quello che volete”. Immaginate un’altra scena surreale. Le grida manzoniane confezionate ad esclusivo vantaggio degli azzeccagarbugli vengono ignorate dai tanti “Renzo” perché le norme sono scritte dai cosiddetti colti per fregare i semplici. Era capitato anche a nostro Signore. Quando miracolava qualcuno spuntava sempre un “dottore della legge” che eccepiva: “Ma costui ha compiuto un miracolo di sabato!”. E Lui rispondeva: “Non è l’uomo per il sabato ma il sabato per l’uomo”. La civiltà giuridica, anche in contesti inaspettati come quello della fede, nasce per difendere il debole ma spesso scivola sull’ingiustizia del formalismo. Le costruzioni umane, siano esse materiali o “spirituali”, scadono a burocrazia quando non sono animate da un cuore solidale. Avere regole certe dovrebbe essere una garanzia per chi ha di meno e invece finisce per agevolare coloro che dispongono delle risorse culturali ed economiche per volgere a proprio beneficio le norme generali.

Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. Non servono dimostrazioni contingenti di stringente attualità mediatica. Ci sono persino equilibri istituzionali che in queste ore ballano attorno a queste “formalità”. Restiamo sul piano ideale e cioè rivendichiamo la necessità di mettere un’anima nei nostri grattacieli. Ci sono 6 milioni di volontari e 350 mila associazioni non profit che da tre anni e mezzo, con governi di qualunque colore, attendono invano un inquadramento normativo del terzo settore. In gioco abbiamo pezzi fondamentali del welfare italiano, oltre al destino dei fragili che quotidianamente traggono dal volontariato l’assistenza e il sostegno indispensabili. Invece di accelerare, il legislatore tergiversa mantenendo un pilastro sociale in bilico. Nelle stesse ore dai territori giungono continue e trasversali sollecitazioni a mettere mano ai decreti sicurezza per ovviare agli oggettivi disagi arrecati al già complicato sistema dell’inclusione dei migranti. Per non parlare di quelle persone a rischio tratta che, private di una qualunque forma di protezione legale, finiscono nel calderone dei “casi umani” invisibili. Disperazioni che scompaiono nel nulla, nell’indifferenza di regole apparentemente vincolanti ma che invece si dimostrano inconcludenti e controproducenti. Da qui un’umile richiesta: serve una vera e organica definizione della questione-integrazione. Poche righe, concetti chiari, disposizioni certe a cui tutti debbano attenersi. Non si tratta né per il terzo settore, né per l’inclusione, di pretesti per alimentare sterili controversie partitiche bensì di reali istanze che salgono dalla società civile. Il nostro appello, dalla trincea del supporto agli ultimi, è di fare in fretta. Non ci sono in discussione temi astratti, bensì la vita concreta delle persone. Un antico adagio latino raccomandava: “Primum vivere, deinde philosophari” (prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia). Ciò vale a maggior ragione in una società contemporanea nella quale è prassi nascondersi dietro a un foglio di carta scritto per fare il minimo indispensabile. “Non è di certo mia competenza!”, si sente ripetere agli sportelli delle varie amministrazioni o di qualunque ente che in teoria dovrebbe essere al servizio dei cittadini. Purtroppo la pietà non alloggia tra le scartoffie cartacee e telematiche dei neo “sommi sacerdoti”, sia in ambito civile che in quello religioso.

Papa Francesco ha descritto i “pavoni” che si compiacciono del loro piumaggio senza rendersi conto di quanto sia disumano il richiamarsi costantemente alle forme. Già la parola “burocrazia” rivela il suo significato di potere esercitato da chi “funziona” non per servire il prossimo bensì per rinchiuderlo metaforicamente in una gabbia di codici e restrizioni. Il funzionario dovrebbe far funzionare la macchina dello Stato e non trarre beneficio dalle croniche inefficienze. Ovviamente il rispetto assoluto per la legalità è fondamento di qualsiasi civile convivenza. Ciò, chiaramente, non è in discussione. Altra cosa, però, è erigere uno spietato sistema a esclusivo vantaggio dei potenti, a scapito dei deboli che vanno a chiedere un diritto e si vedono trattati come dei mendicanti o, peggio, dei ladri. Il burocrate per definizione tende a rendere tutto grigio, non riconosce carisma nè talento, si lava le mani di tutto ciò che potrebbe esporlo, prolifera nella propria mediocrità trasformandola nel metro di valutazione del mondo. L’umanità è troppo varia per essere classificata nei faldoni dei nuovi azzeccagarbugli senza pietà. La distruzione dell’altro viene attuata in modo subdolo, facendosi scudo di codicilli ed eccezioni pur di mortificare l’altrui creatività e la legittima aspirazione a veder riconosciuti i propri meriti. Il Vangelo insegna a dare la giusta paga ad ogni operaio utilizzando il criterio dell’amore invece di quello dell’invidia. Chissà quanto se ne rende conto chi deve mettere un bollo su un documento da cui dipende una vita.