L’amicizia autentica tra i due papi. La realtà più forte della fiction

Nel film “I due Papi” viene descritta, tra realtà e fiction, l’amicizia tra Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio. Inclusa la riflessione interiore del Pontefice dimissionario. Nell’intervista a Televisa Univision, Francesco esprime nuovamente la sua “grande simpatia” per la “bontà” di papa Benedetto XVI . Che si è dimesso nel 2013. E conduce una vita, dice Jorge Mario Bergoglio, di lettura, studio e scrittura a 95 anni. “L’esempio che ci ha dato papa Benedetto è importante” chiarisce Francesco. Specificando che “se vedo che non posso. O che sono di danno. O che sono di disturbo”, allora lascerò. E “spero che la forza del suo esempio mi sia d’aiuto a prendere la decisione”. In riferimento alle dimissioni di Ratzinger del 2013, le prime dopo 600 anni, papa Francesco chiarisce un punto. “L’esperienza è andata piuttosto bene perché è un uomo santo e discreto. E l’ha gestita bene. Ma in futuro le cose dovrebbero essere precisate meglio. O le cose dovrebbero essere rese più chiare”, spiega Bergoglio.amiciziaQuasi un decennio fa gli acciacchi dell’età e le delusioni subite nel corso degli anni avevano prosciugato le energie di Joseph Raztinger. Avvertiva di non sentire più dentro di sé la forza necessaria a fronteggiare nel modo giusto le prove. E le difficoltà che gli erano davanti nella conduzione sempre più gravosa della Chiesa. In dialogo con tutti, anche con i non credenti. Preoccupato di difendere i deboli. Senza timore di togliere il velo dalla piaga degli abusi commessi da ecclesiastici. Tante volte aveva alzato la voce. A difesa della vita e della famiglia. E contro il peccato interno alla Chiesa che definì durante il viaggio pastorale in Portogallo “la peggior persecuzione”. Il 28 febbraio 2013 scese dal trono e si ritirò in preghiera a “Mater Ecclesiae”, l’ex monastero nel cuore dei Giardini vaticani. Ma per inquadrare l’epilogo del pontificato occorre focalizzarsi sul suo avvio. Riannodiamo, dunque, i fili del racconto, per tornare ai giorni che precedettero la fumata bianca. Nei conciliaboli, tra porporati e nelle riunioni pre-conclave, il nome del prefetto della Congregazione della Dottrina della fede fu una sorta di collante. Per la maggioranza wojtyliana del Sacro Collegio.

porpora
Gli stemmi papali: a sinistra quello realizzato per Benedetto XVI, a destra quello per Francesco

La fazione progressista cercò di contrapporgli la candidatura dell’autorevole e carismatico cardinale gesuita Carlo Maria Martini. Le cui possibilità di elezione erano però diminuite dal morbo di Parkinson che già all’epoca minavano la sua salute. Intanto era entrato in azione il cardinale Tarcisio Bertone, a lungo Segretario dell’Ex Sant’Uffizio. E quindi stretto collaboratore di Joseph Ratzinger nella sua missione in Curia. E il ministro vaticano della Famiglia, Alfonso Lopez Trujillo. Organizzavano colazioni e cene con gli altri conclavisti per sponsorizzare Joseph Ratzinger come successore ideale di Giovanni Paolo II. A svelare come andarono le votazioni nella Cappella Sistina fu, a quattro anni dall’elezione di Benedetto XVI, il diario segreto di uno dei partecipanti al conclave. A pubblicarlo sulla rivista di geopolitica «Limes» fu il vaticanista Lucio Brunelli. Che fece emergere, per la prima volta, la vera storia che portò Benedetto XVI alla guida della Chiesa. Al terzo scrutinio, l’argentino Bergoglio sembrava in grado di bloccarlo. Ma poi lo Spirito Santo soffiò in altra direzione. Nel 2005 su 115 cardinali solo due avevano già partecipato all’elezione di un papa. Uno dei due era Joseph Ratzinger. Della clausura che diede alla Chiesa cattolica il 265° pontefice, il diario segreto del conclavista fece emerge un quadro inedito, più mosso, dell’elezione del cardinale Joseph Ratzinger.

Lettere di Papa Francesco e Papa Benedetto XVI al Convegno Fondazione Ratzinger

Al terzo scrutinio la minoranza riluttante a votare l’ex prefetto della Fede aveva fatto blocco sul cardinale argentino Jorge Maria Bergoglio. Raggiungendo l’obiettivo dei 40 voti. Troppo pochi per eleggere il primo papa latinoamericano della storia. Ma sufficienti a impedire, in termini astratti, puramente aritmetici, il raggiungimento del tetto minimo dei 77 voti necessari per eleggere il papa (115-40=75). L’esito del conclave, per alcune ore, dopo la terza votazione di martedì mattina, 19 aprile, sembrò ancora aperto. A ognuno dei 115 cardinali elettori, all’inizio di ogni votazione, veniva distribuita non solo la scheda elettorale ma anche un foglio contenente tutti i nomi dei porporati. Quanti lo desideravano avevano così la possibilità di annotare le preferenze. Al termine d’ogni scrutinio la scheda e il foglio dovevano essere riconsegnati e finivano entrambi nella vecchia stufa di ghisa della Cappella Sistina. Molti porporati, però, (tra questi l’autore del diario) per conservare un ricordo esatto di quanto avvenuto in conclave, appena rientrati nella Casa Santa Marta si appuntavano su un altro foglio, personale, l’esito della votazione. Inoltre, un buon numero di porporati ricevette l’incarico di cardinale scrutatore o revisore e quindi dovette controllare l’esito delle votazioni e controfirmare i dati ufficiali finiti poi nella relazione finale stilata dal camerlengo. Operazioni che permisero così di meglio  memorizzare e verificare i numeri. Il conclave ebbe inizio con l’annuncio del “fuori tutti”. E cioè “extra omnes” proclamato dal maestro delle celebrazioni liturgiche, monsignor Piero Marini. Dopo il giuramento solenne pronunciato dal decano Ratzinger, ogni porporato secondo l’ordine di precedenza stabilito (prima i cardinali vescovi, poi i cardinali presbiteri infine i cardinali diaconi) dovette ripetere la formula abbreviata poggiando la mano sul Vangelo: “Io prometto, mi obbligo e giuro. Così Dio mi aiuti e questi santi Evangeli che tocco con la mia mano”. Il primo e l’ultimo a giurare furono due cardinali italiani e curiali. Rispettivamente Angelo
Sodano, vice decano del sacro collegio e Attilio Nicora, presidente dell’Apsa. la vera sorpresa del primo scrutinio fu il cardinale argentino Bergoglio, ricostruisce Brunelli. Anche lui gesuita, come Martini, sebbene fra i due confratelli non vi sia sempre stata una perfetta sintonia. Negli anni Settanta, al tempo del generalato Arrupe e degli infuocati dibattiti sulla teologia della liberazione, Bergoglio si era dovuto dimettere da provinciale della Compagnia di Gesù. Perché non condivideva la linea “aperturista” dei vertici dell’ordine ignaziano.