La Comunità Lautari: una missione contro le dipendenze

La psicologa e responsabile terapeutica Marta Gurrieri racconta a Interris.it un'esperienza di vita ma anche un impegno quotidiano, fianco a fianco con chi cerca di liberarsi dalle sabbie mobili della dipendenza

Foto © Agi

Crederci più di loro. E’ il segreto per andare avanti, per cercare di convogliare i propri sforzi affinché il desiderio di restituire una vita degna sia più forte del retaggio della dipendenza. La Comunità Lautari applica questa regola base da quasi trent’anni, aprendo le porte dei suoi centri a persone, giovani e meno giovani, logorate da dipendenze e disagi di tipo sociale, in una logica di accoglienza volta non solo al recupero psicologico ma anche al reinserimento nel tessuto quotidiano.

Una sfida impegnativa, che richiede non solo l’impegno degli operatori ma anche la consapevolezza della multiformità delle dipendenze. Una deriva del nostro tempo, che rende più complesso il recupero e più impegnativo il percorso di cura. Ma è qui che entra in gioco il valore di chi ha scelto di mettere se stesso al servizio dell’altro, affinché la speranza di salvezza divenga una motivazione concreta. “Lavorare in Comunità – ha spiegato a Interris.it la psicologa e responsabile terapeutica Marta Gurrieri – che ti chiede di cambiare ogni giorno e di farti continuamente domande su te stesso”.

 

Dottoressa Guerrieri, la Comunità Lautari opera nel campo delle dipendenze ma il suo impegno si estende anche oltre la fase di recupero psicologico…
“La comunità nasce nel 1992. Inizialmente si occupava di recupero di ragazzi dipendenti ma poi le dipendenze si sono modificate molto. Ormai si parla di poliassuntori, problematiche di dipendenza estremamente variegate. E quindi anche il metodo di cura si è modificato in questi ultimi sette anni. Oggi ci occupiamo di dipendenze ma anche di disagio sociale. Un numero di posti letto è riservato per persone che hanno problematiche legate a situazioni di povertà, che si sono ritrovate senza casa e che, in cambio di vitto e alloggio, offrono  la loro manodopera. Poi pian piano le reinseriamo nel loro tessuto sociale. Ci occupiamo poi di dipendenze a 365 gradi come le ludopatie, da internet. Abbiamo una sede socioassistenziale a Brescia, in Lombardia, un’altra ad Ardea con 13 persone, dove i ragazzi fanno il loro percorso di recupero”.

Come si articola la fase di reinserimento lavorativo?
“Affiancare un pre-inserimento in attività lavorativa a un recupero psicologico. Per il primo caso abbiamo delle cooperative, che sono diverse: alcune che si occupano di falegnameria, altre di cavalli, altre ancora di eventi, c’è un cantiere edile, vigneti. Queste insegnano ai ragazzi un mestiere e permettono alla struttura di andare avanti economicamente. La struttura è completamente autonoma, non riceve assolutamente fondi statali ma vive di donazioni e dei ricavati delle attività delle nostre cooperative. Un’attività che proponiamo è ‘prevenzione e informazione’ e consiste nel raccogliere firme contro la droga attraverso una testimonianza diretta, raccontando la loro esperienza. Le donazioni servono a mantenere le spese vive delle case e insegna ai ragazzi ad accettare la propria esperienza di vita, che non è assolutamente facile né scontato”.

Attività alle quali si affianca la parte più complessa e principale, quella del recupero psicologico…
“Per questo, all’interno delle nostre case ci sono psicologi, educatori, assistenti sociali, medici, psichiatri: figure professionali che attraverso il sostegno quotidiano si occupano del loro recupero “mentale”. Si fonde la parte psicosociale con quella lavorativa. I percorsi in comunità da noi sono più lunghi della media, durano dai 3 ai 5 anni, e questo si basa sul fatto che una problematica come la tossicodipendenza, che si è strutturata in almeno 10 anni di vita, hanno bisogno di un lungo periodo per ristrutturare il loro sistema di vita. I 18 mesi standard, dal nostro punto di vista, sono inutili secondo noi. Per fare un esempio, l’esame del capello, il test più indicato per riscontrare eventuali sostanze stupefacenti nell’organismo, diventa accettabile dopo 9-10 mesi di comunità. Abbiamo a che fare con persone che per il loro primo anno in comunità sono ancora ‘sporche’ di droga. Finché non riceveremo fondi statali riusciremo a individualizzare i tempi, questa è la sfida. Noi accogliamo solo maggiorenni, maschi e femmine, con qualsiasi problema collegato a dipendenza e disagio sociale”.

Nel procedere con le due fasi di recupero, le risposte possono mostrare risultati disomogenei? A seconda, ad esempio, della gravità del caso…
“C’è una macrodistinzione da fare tra tossicodipendenza ‘classica’ e quella in associazione a una patologia psichiatrica. Purtroppo oggi, la maggioranza delle persone con una dipendenza associa questa a una psicopatologia significativa grave, a volte anche dell’area psicotica. E quindi la cura diviene più complessa. Sono le cosiddette doppie diagnosi, che una struttura come la nostra non potrebbe accogliere ma, fondamentalmente, è difficile in una fase preliminare valutare se vi sia problematica più profonda. Si presentano quindi casi estremamente complessi in cui, tolta la dipendenza dalla sostanza, si ha a che fare con complessità estremamente più gravi e difficili da curare”.

Avere a che fare con una persona in giovane età permette di agire in modo più incisivo rispetto a un paziente di età superiore? O il fattore anagrafico incide in misura minore sul percorso di recupero?
“L’età incide a diversi livelli. Purtroppo, il grosso problema delle nuove dipendenze è collegato al fatto che la loro dipendenza è multi-strutturata e, di conseguenza, può riguardare psicofarmaci o altre sostanze che rendono difficile la cura. Quando un ragazzo 18 anni è motivato diventa naturalmente più facile curarlo. Ma trovare qualcuno che lo sia realmente è quasi impossibile. La difficoltà con gli adulti, invece, è legata al fatto che si cronicizzano facilmente. Sono individui che, purtroppo, hanno vissuto un’intera esistenza attorno alla droga e alla dipendenza. Creare per loro scenari diversi e soddisfacenti diventa estremamente difficile. La tossicodipendenza è una patologia grave e recidivante, la cui riuscita è estremamente bassa”.

Come inizia il percorso all’interno della Comunità? L’avvicinamento volontario sarebbe un fattore determinante…
“Si entra in Comunità attraverso diversi canali: venire autonomamente, con i servizi territoriali che si occupano di dipendenze. Possono inoltre venire attraverso misure alternative alla detenzione. I nostri ingressi che avvengono per scelta volontaria sono decisamente pochi, probabilmente uno su dieci. Chi entra, nella maggior parte dei casi, lo fa per qualche altra forza che lo spinge. La paura di perdere un figlio, una compagna, la ‘minaccia’ di un genitore, l’aver commesso un reato… C’è sempre qualcosa fuori di sé che li spinge a venire da noi e la sfida è trasformarla in una forza interiore, in una motivazione interna”.

Fra gli accolti vi sono ragazzi anche molto giovani. In che misura incide il ruolo delle famiglie nel vostro operato?
“Un 60% ha delle famiglie che hanno provato a seguirli a modo loro. Ma tanti altri hanno alle spalle nuclei familiari con diverse problematiche dietro e che queste cose le hanno viste accadere dentro casa. Se riusciamo a creare un rapporto di cooperazione con la famiglia, se è nella nostra squadra, questo potrebbe essere il fattore che aiuta a guarire. Se i familiari si oppongono in qualche modo alla comunità, a quel punto diventa dura perché la loro voce è più forte della nostra”.

Anche le attività della Lautari hanno incontrato il blocco imposto dalla pandemia. Come sono stati adeguati i percorsi di recupero e, soprattutto, quelli di attività lavorativa?
“La pandemia è stata fonte di preoccupazione immensa. Innanzitutto a livello salutistico. La nostra è una piccola città, se si infettano uno si infettano tutti. Ogni inverno stiamo attenti per l’influenza ma, in questo caso, il livello d’attenzione è stato moltiplicato per cento. La preoccupazione era sanitaria ma anche economica, perché le nostre cooperative si sono fermate, così come i tavoli di prevenzione e informazione. Abbiamo usato i nostri risparmi e, per la prima volta in trent’anni, abbiamo chiesto donazioni ai genitori che non contribuiscono assolutamente in nulla nel mantenimento dei ragazzi. Anche a livello di beni primari è tutto a nostro carico. Ci hanno dato una mano, sono stati molto generosi e nessuno che non avesse davvero grandi difficoltà si è tirato indietro. Non abbiamo avuto nessun contagio, mi chiedo se sia un miracolo. Siamo stati bravi forse, perché ci siamo chiusi quasi venti giorni prima che arrivassero le disposizioni di lockdown, ma anche fortunati. Ora siamo gradualmente ripartiti, con grande attenzione e con tutti gli accorgimenti del caso”.

Per voi questo lavoro è anche una missione, da svolgere con passione e dedizione. Ma è anche un impegno gravoso, che potrebbe influire anche sulla sfera emotiva…
“Lavorare in comunità è difficile, perché si ha a che fare con persone che probabilmente non ce la faranno. Ma se vogliamo che quella persona possa far parte del 5% che ce la farà, dobbiamo crederci come se fossimo certi del suo successo. Il segreto è crederci più di loro. Se non ce la farà devi essere in grado di distanziarti ed essere consapevole che non è tutta colpa tua. E’ bellissimo lavorare con loro perché sono persone interessanti, complesse, intelligenti. Ma proprio per questa ragione si mettono su un piano paritario e mettono in discussione l’operatore. E’ un lavoro che ti cambia, che ti chiede di cambiare tutti i giorni e di ragionare su di te, perché parli con persone alla pari ma che devi curare”.