Il surf metafora della vita

Può uno sport essere metafora della vita? È quello che si domanda la scrittrice Ellis Avery sulle colonne del quotidiano statunitente The New York Times. La giornalista americana ricorda il suo passato segnato da una grave forma di artirte e il suo riflesso sulla vita finora condotta: “'Questa non sono io' è ciò che volevo dire al mondo intero. Questo tempo non conta. Quando camminerò di nuovo, lì sarò nuovamente reale” scrive. Spesso, come sottolineano le sue parole, il dramma della malattia deve fare il conto con la mancata accettazione della realtà.

Sperare

Spesso si pensa che per superare i momenti difficili di una malattia, sia necessario un grande sforzo. Eppure, per Ellis, la rinascita coincide con un atto di abbandono di sé stessa: “In mezzo alla miseria, ho cominciato a sperare” scrive. “Io e il mio coniuge – scrive – pensavamo di trasferirci in Australia, per cui ho fatto domanda per un programma [di inserimento professionale, ndr] e sono stata ammessa alla scuola per infermieri dell'Università di Melbourne”. Il luogo in cui la scrittrice si trasferisce è Bondi Beach, l'ampia spiaggia australiana, patria del surf.

Il segreto del surfista

“Osservando i surfisti, ho notato che il tempo che trascorrevano in piedi sulle loro tavole, cavalcando le onde  era minimo rispetto al tempo che trascorrevano a nuotare nell'acqua vicino alla tavola, generalmente non andando da nessuna parte”. Ellis ha notato che “anche i bravi surfisti trascorrono molto più tempo fuori dalla tavola che su di essa”: una metafora della stessa vita, in cui la giornalista ha ravvisato un rilfesso delle difficoltà che la malattia spesso infligge all'esistenza dell'uomo: “Se sommi i secondi che un buon surfista ha effettivamente trascorso cavalcando le onde, equivarrebbe solo alla frazione più piccola di un'intera vita. Eppure i surfisti sono sempre surfisti. Sono surfisti mentre stanno facendo il loro lavoro, quando sognano ad occhi aperti. Sono surfisti quando si svegliano alle 4 del mattino. Sono surfisti quando percorrono la tavola giù per la collina fino a Bondi Beach. Sono surfisti quando bevono i loro caffè prima dell'alba”. 

Il mistero della sofferenza

Spesso l'idea che noi stessi abbiamo delle nostre vite è proiettata a un'utopia nella quale siamo sempre sulla cresta dell'onda. Il surf, invece, ha insegnato alla giornalista del The New York Times che vivere la vita significa circumnavigare la propria “tavoletta da surf”, che stare in piedi su di essa è questione di una manciata di secondi, che in fondo ha peso tutto ciò che viene prima di quel glorioso momento: “Non mi pare che i surfisti si lamentino del tempo trascorso senza cavalcare le onde. Non solo sono surfisti in continuazione, ma mi pare siano anche felici in ogni momento” scrive. Il surf ha, dunque, fornito alla scrittrice l'occasione per meditare sul senso della vita e il punto di inizio di una nuova rinascita: “Ho pensato alla mia precedente vita a New York, quando mi svegliavo all'alba per tenere corsi e lottavo per reclamare l'esistenza della reale me […]. L'oscuro mistero della sofferenza corporale mi ha offerto una nuova possibilità di amare New York e la vita, ancora una volta. E io l'ho accettato con gioia. Pensando ai surfisti di Bondi Beach, mi sono ripromessa di farlo quando sarei tornata a casa”.

L'articolo apparso sul quotidiano The New York Times il 13 aogosto 2019 – Sito web © nytimes.com