La strada di Fellini

Chissà come racconterebbe, Federico Fellini, l'Italia del Duemilaventi. Forse in modo diverso da come raccontò il Paese del Dopoguerra attraverso la lente sfocata degli ultimi anni del neorealismo, volutamente offuscata da un parterre fatto di gente bizzarra, comune, quasi circense nel suo modo di affrontare, non sempre in modo cosciente, la vita in tutte le sue sfaccettature. Quasi mai belle ma quasi sempre capaci di riservare quella giusta dose di fiducia, necessaria a trasformare la fatalità in coraggio, la malinconia in voglia di vivere. Il senso di colpa in pietra angolare per il necessario cambiamento. L'Italia di oggi, con la sua velocità di azione ma meno attenta a quell'aura nostalgica che invece il regista riminese metteva sovente al centro della scena, evidenziando quelle decadenze fisiche e morali che speso fanno da contraltare a un contesto di voluta apparenza. In questo, la Gelsomina de La strada non è poi così diversa dalla Emma de La dolce vita, entrambe specchio di un mondo che scava il solco dell'infelicità a dispetto del buon cuore e dei talenti. A Gelsomina, il senso della vita glielo spiegherà un Matto, l'unico a convincerla che, in fondo, anche il cuore più rude può essere compreso. E la disillusione sulla redenzione, quella che Fellini mostra solo allo spettatore, fa parte dell'incredibile pista da circo che è la vita.

Il dramma umoristico

I cento anni, più che Fellini, sembrano compierli i suoi film talmente la memoria collettiva del Paese ha contribuito a renderli immortali. Forse perché in quelle pellicole l'Italia si riconosce e, in alcuni casi, prova a prenderne le distanze, trovandovi le sue ragioni per capire cosa non fare o cosa si è fatto senza volere. Nella rudezza di Zampanò, incapace di comprendere sentimenti nobili ma sufficiente a regalare a un Paese ancora reduce dal suo recente passato di tribolazione qualche frazione di secondo di eccezionalità; ma anche nella vuota inutilità de I vitelloni, abbastanza svegli per capire la futilità delle loro giornate ma incapaci (quasi tutti) di allontanarsene. Del resto, come disse lui stesso a Gian Luigi Rondi, il comico si fa “nel senso della commedia, cioè del dramma comune, umano, umoristico, risibile, addirittura buffonesco, vissuto senza coturni ai piedi. Film che raccontano illusioni di personaggi smontati e smagati da una realtà imprevedibile”. Più grande di loro, come le notti erano più grandi di Cabiria, che trova nell'allegria la ricetta per curare l'afflizione della sua miseria. Il senso è ancora quello della ricerca, di cui la strada è e resta non tanto la metafora, quanto l'esempio concreto del camminare in direzione di qualcosa. Come se in fondo, fossimo tutti quel “buffo, sgraziato e tenerissimo clown che ho chiamato Gelsomina”. Con tanto di tromba, per arrivare dove non arriva la voce.