“Bianca”: dal Pequod agli abissi dell'animo umano

Moby Dick non ti cerca”, dice il primo ufficiale Starbuck sul finire del romanzo-capolavoro di Herman Melville, incitando il capitano Achab, per un'ultima volta, a desistere dalla folle caccia al capodoglio bianco. Folle perché insensata, pur se inevitabile al termine di un viaggio come quello del Pequod, baleniera di assi che diventa luogo di riflessione, di relazioni umane, di ispezione ma anche e soprattutto di introspezione. Un viaggio sì, ma interiore, perché è nella natura dell'uomo sondare se stesso cercando un doloroso confronto con qualcosa che, forse, va al di là della sua comprensione. Non c'è una caccia alla balena nello spettacolo teatrale “Bianca – Un omaggio a Moby Dick di Herman Melville” ma la ricerca continua di una voce che possa spiegare quello che ci sfugge e restituire all'uomo, in viaggio su un'ideale nave dell'io interiore, la capacità di ascoltare. Un'opera unica nel suo genere, firmata da Giovanni Guardigli e con Alessandro Di Murro alla regia, che affronta il capolavoro dello scrittore americano in una singolare rilettura che all'immagine antepone musica e parole. Non a caso la messa in scena è stata pensata per l'1 agosto, giorno del bicentenario della nascita di Melville: una serata in cui, come raccontato a In Terris dall'attrice Daniela Giovanetti (una delle due voci di “Bianca”), i Giardini della Filarmonica Romana diventano le acque dell'oceano e il palcoscenico teatrale il Pequod su cui, almeno una volta, a ognuno di noi è capitato di salire.

 

Moby Dick non è solo un romanzo: è una pietra miliare della tradizione letteraria occidentale, così radicato nell'immaginario popolare da rendere una rilettura teatrale come “Bianca” una sfida davvero impegnativa…
“Sì, è realmente una sfida, esattamente come Moby Dick. Noi ci apprestiamo a seguire gli insegnamenti e le tracce di Melville. Penso che Guardigli abbia scritto un testo importante perché è riuscito a cogliere quello che volevamo raccontare, quel che a noi è rimasto di questo libro 'sacro' come dice Cesare Pavese, perché Moby Dick è veramente da intendersi tale. Io sono totalmente d'accordo con Pavese, perché siamo davvero di fronte a qualcosa di grandissimo, che affronta il mistero dell'uomo, il confronto fra il bene e il male che è un po' la nostra esistenza. E questo è anche il mistero di Moby Dick: un viaggio verso la conoscenza, cercando di capire, di ascoltare senza saper ascoltare. Penso che oggi più che mai il significato più profondo di Moby Dick ci appartenga tantissimo, perché siamo in un'epoca in cui l'ascolto sembra finito: non sappiamo più di essere immersi nella natura, in questa 'grande madre' che ci parla continuamente senza che noi riusciamo a metterci in ascolto. E noi, che facciamo questo lavoro, non possiamo non cercare di raccontare queste cose, che possono aiutare tutti a fermarsi un attimo e a cercare di mettersi in ascolto. Questo è quello che abbiamo cercato di dire e di vivere in scena”.

Come si struttura un'opera simile?
“E' come se ci fossero all'interno tre personaggi, tre grandi voci: quella della stessa Bianca, intesa come 'madre natura', Ismaele, il narratore, e Achab, l'incontro straordinario, l'uomo che sembra lottare con la 'grande madre'. E' come se Achab fosse una sorta di eroe, senza più passato ma con un presente e con una consapevolezza di quale sarà il suo futuro, sicuro del suo epilogo tanto da portarlo in fondo, fino alla fine. All'interno ci sono dunque queste voci che diventano anche corpo poiché i personaggi prendono vita. Ma non sono sola, perché insieme a me c'è una bravissima cantate-musicista e la voce di ogni personaggio, quindi, si amplifica, la musica allarga il tutto. Abbiamo anche un organo in scena e il tutto ha un aspetto effettivamente sacrale. La musica ogni volta ci dà la possibilità di affondare ancora di più negli abissi, nella spiritualità. La vicenda è ovviamente quella che conoscono tutti: si parte con il Pequod a cercare la balena, impegnandoci in una ricerca che è propria di ognuno di noi. Cerchiamo quindi di raccontarla, di entrare a fondo, parlando di vicende che finiscono con il somigliare al perdersi in mare, al venire raccolto o non raccolto nel momento in cui ci si appresta a un viaggio importante verso una terra in cui vivere. All'interno dell'opera, sempre mantenendo forte la base del romanzo, c'è tutto questo ma perché è dentro il romanzo stesso. In scena siamo in due ma è come se ci fossero tutti gli abitanti del Pequod, e questo è merito del lavoro straordinario del regista e degli altri”.

Una figura interessante quella della nave: nel romanzo è forse essa stessa il simbolo del viaggio, uno spazio limitato dove c'è ampia possibilità di riflessione, scandita nella monotonia delle giornate trascorse a bordo. Sensazioni profonde che in “Bianca” vengono proposte direttamente dal palcoscenico…
“Proprio il teatro, che è in realtà un luogo scarno, è un posto dove c'è parola e corpo, e direttamente si arriva alla persona che sta dall'altra parte per raccontare quello che è fondamentale per l'uomo. Il teatro nasce per questo ed è quasi magico pensare che basti pochissimo per riuscire a comunicare il significato anche solo di una parola, di un gesto o di una nota. La stessa scenografia è scarna ma estremamente comunicativa: assi per ricordare il Pequod, una vela tagliata che potrebbe sembrare quasi il telo di un sipario, a ricreare l'attesa di Achab, palpabile anche nel romanzo. La stessa Moby Dick arriva alla fine, quando non è più importante chi sia il male o il bene: diventa un incontro necessario ai nostri occhi, che sono gli stessi di Ismaele, per riflettere su quelle che sono le necessità dell'essere umano. Sono sostanzialmene queste le tre presenze in scena, anche se poi attorno orbitano tutti gli altri personaggi che tessono il filo delle relazioni umane. E il teatro è un luogo dove si può ancora raccontare tutto questo, perché basta veramente poco. Io credo molto in questa cosa, poiché ho letto Moby Dick in un momento difficile e ha stimolato in me la necessità di riprendere il viaggio e, successivamente, di raccontarla attraverso il teatro”.

In un'epoca in cui la comunicazione viaggia su molti mezzi, talvolta sfuggendo al nostro controllo, un messaggio universale come quello di Melville può ancora far presa sulle nuove generazioni?
“Io penso che romanzi come questo, classici che resteranno anche dopo di noi, sono un qualcosa che ci fa bene, non perché ci rilassa ma perché ci mobilita, ci impedisce di essere arrugginiti. E quindi più che mai credo serva alle nuove generazioni. Lo stesso team che ha relizzato quest'opera è composto da persone giovanissime e, forse per questo, vivono il tutto in un modo ancora più profondo. Credo che il romanzo di Melville sia dotato di una forza e di una qualità tali da non aver bisogno di spiegazioni. Penso che lui ci abbia lasciato qualcosa di importante e quando le cose rimangono nei secoli è perché riescono a non essere inquadrate esclusivamente nel loro periodo storico ma a essere declinate anche in chiave attuale. Oggi come oggi c'è fame: la tecnologia non è una cosa contro ma potrebbe essere un fattore a favore del racconto, perché fornisce più mezzi. Sono positiva, credo che ci saranno cambiamenti ma le cose fondamentali vivono e rimarranno. E' vero che l'idea di leggere può sembrare oggi un concetto un po' più distante ma in fondo uno dei nostri obiettivi è anche questo: invogliare ad aprire e conoscere il romanzo. E se riuscissimo ad arrivare a questo avremmo ottenuto già un grande risultato”.


Daniela Giovanetti