Addio a Toni Morrison, cantrice dell'America nera

L'ultima immagine che ci ha lasciato è il fotogramma finale del documentario Toni Morrison: The Pieces I Am diretto da Timothy Greenfield-Sanders e presentato lo scorso 9 luglio: un'inquadratura tagliente, esclusiva, di una donna fiera come una leonessa, gli occhi velati come la foschia dell'Ohio, lo stato in cui nacque ottantotto anni fa. Il suo ultimo ricordo è, ancora una volta, un'immagine dall'intimità diretta, allo stesso modo in cui furono i suoi libri: cieli aperti sull'America delle contraddizioni, la nazione della libertà e delle persecuzioni, dei cittadini di serie a e b. Che cosa sono Sula, Il canto di Salomone, Amatissima – con cui vinse l'ambitissimo Premio Pulitzer nel 1988 – se non spaccati di una sofferenza che lei, scrittrice nera d'America, ha sempre sentito come inanellati nel suo dna? Con la scomparsa di Toni Morrison, s'interrompe una letteratura che ha descritto il dolore come un'entità prismatica, dalle molteplici sfumature del reale, tutte tenunte insieme dal peso gravoso, eppure inevitabile del passato. In un'intervista curata da Bruno Carosio e Alessandro Portelli, disse del passato: “E tu devi stare lì e guardarlo in faccia. O almeno provarci. E se non lo fai, se non hai almeno un minimo di dialogo col passato, non puoi capire il senso del presente. Tanto meno del futuro”. 

Una vita per gli altri

Nata nell'Ohio, la città riflessa sulle acque tumultuose del Black River, da una famiglia di operai emigrati dall'Alabama, sin dall'infanzia Toni Morrison confessa di essere stata appassionata di letteratura. Dopo gli studi in letteratura inglese alla Howard University e, in un secondo momento, alla prestigiosa Cornell University, intraprende la carriera accademica nello stato del Texas, dove sposa un architetto giamaicano che le darà due figli. In seguito al divorzio, inframmezza la carriera professionale in una casa editrice al mestiere di mamma. Riuscirà a farli entrambi, sebbene questo le costerà enormi sacrifici. Eppure, la sua visione della vita sarà sempre stata innervata da un costante senso di gratitudine, quasi che lei stessa ravvisasse nelle tappe personali e professionali un “debito” di riconoscenza verso la sua famiglia, finanche le coincidenze sconosciute che l'avevano portata ad essere quello che era: “La mia vita è facile in confronto a quello che hanno passato loro (gli antenati schiavi, ndr). […] C’è stato chi ha fatto cose molto importanti, affinché io non fossi sola e affinché potessi essere il più libera possibile. Questa libertà comporta obblighi, e mi dà forza: ci sono moltissime cose che non riuscirei a sopportare, se dovessi farlo solo a mio nome” dichiarò in un'intervista. Nonostante il successo letterario, continuò a lavorare in ambito editoriale fino al 1985, quando ritornò ad insegnare. Fra i banchi di scuola, ha scrutato i volti di una nuova generazione, eterogenea ma anche ambiziosa di lasciare un segno e cambiare le cose. I perfetti personaggi di alcuni suoi libri più celebri, come Pilate, la giovane protagonista di Canto di Salomone, ruvida per essere una dodicenne, eppure consapevole del proprio diritto alla libertà ed indipendenza. Dedicandole un post su Twitter alla memoria, l'editore Alfred Knopf l'ha omaggiata con una delle frasi più celebri, che riassumono l'essenza della sua vita: “Muoriamo. Questo potrebbe essere il significato della vita. Ma creiamo il linguaggio. Potrebbe essere la misura delle nostre vite”. 

#show_tweet#

Libertà e dolore

Erede di una generazione libera dal giogo della schiavitù, eppure oggetto di vessazioni nell'America di Martin Luther King e del Ku Klux Klan, la letteratura di Morrison è sempre stata sospesa tra il desiderio di affrancamento dalla prigionia e il senso più profondo di libertà, che – come lei stessa dichiarò – significa “essere padroni di sé stessi”. Il suo approccio sentimentale ai personaggi, che tradisce una formazione classica desunta dalle tragedie greche, non prescinde da questa linea che fa di loro degli uomini e donne in formazione. Morrison sapeva bene cosa significava crescere da sola due figli in un'America pronta a confinare le libertà civili, quegli stessi baluardi che avevano fatto degli anni Sessanta il decennio più bello del secolo scorso, sminuiti – come lei stessa ricordava – dal trinomio “sesso, droga e rock 'n roll“: “È stata cancellata la sua bellezza, la sua importanza, la sua nobiltà. La lotta contro quella guerra, i diritti civili”. Nell, Hesther o Pilate – solo per citare alcune protagoniste dei suoi libri – sono altrettanti, svariati volti della medesima società, vista come un piano reclinato il cui peso è un equilibrio di diritti. Per questo, col sopraggiungere degli anni Novanta, l'autrice non risparmiò criticità a certe operazioni che finivano per restringere la vocazione “materna” dello Stato: “Gli americani si sono fatti convincere che tutto quello che si meritano è uno spreco”. A lei, invece, va il merito di aver elevato l'urlo della sofferenza a paradigma umano, che non ha colore né provenienza specifici, contrariamente a tanti autori figli dell'apartheid. Parafrasando lo scrittore Carlo Levi, Toni Morrison è riuscita nell'impresa di tradurre il male in un dolore profondamente terrestre.