Braccianti schiavi a Caltanissetta: “Uccisero un lavoratore che si era ribellato”

L'omicidio del pachistano Adnan Siddique è stato commesso il 3 giugno scorso dopo che l'uomo si era ribellato denunciando i suoi caporali

mediazione

Carabinieri e polizia di Stato hanno sgominato oggi, 2 dicembre, un’associazione per delinquere formata da pachistani che sfruttava diversi connazionali come braccianti agricoli a Caltanissetta e provincia. Un caso di caporalato aggravato dall’omicidio di uno dei braccianti, reo di essersi ribellato allo stato di schiavitù lavorativa in cui era stato obbligato dalla banda.

Nello specifico, l’omicidio del bracciante pachistano Adnan Siddique – commesso la sera del 3 giugno scorso dopo che l’uomo si era ribellato denunciando i suoi caporali – è maturato nell’ambito dello sfruttamento di braccianti agricoli al centro dell’operazione odierna, denominata “Attila”.

Durante le perquisizioni eseguite la notte scorsa sono stati trovati in casa di uno degli arrestati due libri mastri, tuttora al vaglio della Procura, nei quali erano descritti i nomi dei lavoratori sfruttati ed il compenso che si aggirava sui 25-30 euro al giorno.

Operazione Attila

Prima dell’omicidio, la banda aveva già commesso numerosi episodi di violenza nel Nisseno rendendosi responsabili, secondo l’accusa, di delitti contro la persona ed il patrimonio, in larga parte ai danni di loro connazionali a Caltanissetta e in paesi vicini alla città.

Per tali motivi, gli arrestati sono indagati, a vario titolo, per associazione per delinquere finalizzata al caporalato, estorsioni, sequestro di persona, rapine, lesioni aggravate, minacce, violazione di domicilio, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato.

Metodo paramafioso

L’indagine ha preso avvio dopo numerosi interventi e denunce presentate da altri pachistani alla polizia e anche nelle stazioni dei carabinieri di alcuni paesi vicini come Milena e Sommatino.

Secondo l’accusa il gruppo, formato da pachistani da tempo residenti nel centro della città, “agendo con metodo paramafioso, ha assoggettato la comunità di appartenenza sottoponendola ad un regime di vessazione e terrore e sfruttandola professionalmente al fine di assicurare all’associazione continuità nel tempo”.

I numerosi episodi di violenza, sottolineano ancora gli investigatori, hanno permesso “di acclarare l’esistenza di una vera e propria associazione per delinquere, finalizzata ad imporre la propria egemonia sul territorio, acquisita dal protratto periodo di operatività e rafforzata dal costante ricorso a condotte minatorie e violente di elevatissimo allarme sociale”.

Il leader del gruppo

Leader indiscusso del gruppo era Mahammad Shoaib che, insieme a Bila Ahmed, Ali Imran, Ali Mohsin e Giada GIarratana, reclutavano manodopera pachistana col metodo del caporalato.

I loro connazionali venivano ‘offerti’ ai titolari di aziende agricole “in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, accordandosi sull’entità del compenso, che si aggirava sui 25-30 euro al giorno, e trattenendo per sé una parte o persino la totalità del corrispettivo”.

Chi si lamentava era vittima di efferate spedizioni punitive, come un nigeriano colpito a colpi di bastone e spranghe per avere chiesto la sua paga.

Le violenze

Tra le violenze emerse le minacce di morte con un coltello puntato alla gola di una vittima sequestrata per tre ore per chiamare il padre in patria allo scopo di farsi mandare 5 mila euro per ottenere la sua ‘liberazione’.

In un’altra occasione è stata aggredita una nigeriana mentre stringeva tra le braccia suo figlio di appena un anno, rapinandola di duecento euro. Il marito della donna è stato aggredito con calci e pugni.

E’ contestata anche un”irruzione, con pistola e coltelli in una comunità per minorenni, pestando due degli ospiti dopo un banale diverbio con un altro ragazzino, che aveva chiesto l’intervento del boss della banda per “punirli“.

Aziende agricole coinvolte

Coinvolti nell’indagine anche i titolari delle imprese agricole dove i pachistani venivano condotti a lavorare perché, sottolineano carabinieri e polizia, “trovavano conveniente rivolgersi ai caporali loro connazionali perché ben consapevoli che nessuna denuncia sarebbe mai potuta intervenire a danneggiarli, proprio per le condizioni di sfruttamento dei lavoratori”.