Borsellino, l'audio inedito: “Libero di essere ucciso la sera”

Un audio che finora non si conosceva nel dettaglio, quello che ha immortalato la voce del giudice Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992. Una registrazione che risale a qualche anno prima (1984, la prima delle sei in cui si sente la sua voce) quella desecretata dalla Commissione parlamentare antimafia, quando il magistrato siciliano era in procinto di istituire il primo maxi-processo contro Cosa nostra, “processi di mole incredibile” li definisce, invocando la messa a disposizione degli inquirenti di strumenti più efficenti, perché “non vanno più bene quelli tradizionali”, vista “la mole dei dati” a disposizione. “Desidero affrontare la gravità dei problemi, soprattutto di natura pratica, che noi dobbiamo continuare ad affrontare ogni giorno”, si sente nell'audio, con riferimento a quei procedimenti giudiziari “ognuno dei quali è composto da centinaia di volumi che riempiono intere stanze”. Scaffali interminabili di documenti, frutto di un'indagine serrata e top secret, che si sarebbe poi avvalsa della collaborazione del pentito Tommaso Buscetta (proprio lui, come ricorderà in un'altra parte di audio, gli confidò che dalle due alle quattro del pomeriggio i boss latitanti passeggiavano tranquillamente nel centro di Palermo, visto che proprio a quell'ora, con il cambio di turno delle auto di servizio, sapevano che non ce ne sarebbero state per le strade). E all'epoca, la stagione delle stragi era già entrata nella sua fase più drammatica: solo un anno dopo quelle dichiarazioni, la mafia avrebbe massacrato Ninni Cassarà, fra le figure principali di quel pool antimafia. Nel 1983 era già toccato a Rocco Chinnici.

Mezzi e scorta

Ma in quell'8 maggio del 1984, Borsellino dice anche qualcos'altro: “Desidero sottolineare la gravità dei problemi che dobbiamo continuare ad affrontare… Di pomeriggio, è disponibile solo una macchina blindata. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Con ciò riacquisto la mia libertà, però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per essere poi libero di essere ucciso la sera”. Uno dei tanti appunti a un sistema che, all'epoca, sembrava non essere ancora entrato definitivamente nell'ottica di quanto e cosa stava combattendo. Un pool composto da alcuni dei più importanti magistrati dell'epoca, costretti a fare del loro meglio con mezzi insufficienti, posti davanti a un muro messo in piedi da anni di silenzi da scalfire quasi con la sola forza dello spirito di giustizia. Era il 1984, sì, e già allora si invocava l'aiuto di uno strumento che, oggi, è quotidiano compagno di viaggio nella vita di ogni giorno: serviva un computer secondo Borsellino, che “purtroppo non sarà operativo se non tra qualche mese perché sembra che i problemi della sua installazione siano estremamente gravi, anche se non si riesce a capire perché”. Eppure, quella mole immensa di fascicoli che costituiva quell'indagine monstre, non poteva andare avanti “con le nostre semplici rubrichette artigianali”: servivano “segretari e dattilografi”, perché “il giudice che è costretto a lavorare, come nel processo attualmente in corso, per 16 o 18 ore al giorno rimane, per buona parte della giornata, solo con se stesso, con tutto l’aggravio di lavoro che ne deriva”. Parole che, ancora oggi, hanno il peso di macigni.