Walter Tobagi, la ricerca della verità negli anni della violenza (VIDEO)

Quarant'anni fa, cinque colpi di pistola uccidevano il cronista spoletino. Una carriera orientata nella comprensione piena delle dinamiche del suo tempo

La rilevanza giornalistica del lavoro svolto da Walter Tobagi porta fin troppe volte a dimenticare che, al momento del suo omicidio, aveva solo 33 anni. Un giovane cronista che, nel giro di pochi anni, aveva dato al mestiere un’impronta innovativa, fatta di meticolosa ricerca, essenzialità di scrittura e la ricerca costante della verità. Un presupposto basilare per chi intraprende la carriera giornalistica ma che, negli Anni di piombo, richiedeva ben più coraggio. La bomba di Bologna, esplosa appena tre mesi dopo, coprì probabilmente i fotogrammi insanguinati del 28 maggio dell’80 quando, sotto la pioggia milanese, cinque colpi di pistola sparati dal commando della Brigata XXVIII marzo, uccisero il giovane giornalista. Non lo accompagnava nessuna scorta. La sua quotidianità, fatta di lavoro e famiglia, non era stata intaccata dalla consapevolezza di essere costantemente sul fronte, in prima linea, in lotta per cercare di dare un senso a quello che stava accadendo.

La debolezza dell’eversione

Per Tobagi, quei movimenti erano fragili. E lo erano per le contraddizioni che la protesta portava con sé, con l’annunciata rivoluzione che perdeva via via la componente di innovazione e ideale per lasciar posto alla violenza di un odio cieco e deforme. Il suo “Non sono samurai invincibili”, titolo di uno dei suoi ultimi articoli, divenne quasi il suo testamento, la pietra angolare di quell’eredità che un’intera generazione di giornalisti avrebbe guardato come un esempio. Lo stesso Tobagi scrisse che “l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze e forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascono non dalla paura, quanto da dissensi interni, sull’organizzazione e sulla linea del partito armato”. Nessun codice, in stile samurai, solo le propaggini di una lotta che, di lì a poco, avrebbe cercato di nascondere la sua controversa interpretazione dell’eversione mettendo a tacere chi l’aveva messa a nudo.

Video © Il libro della vita

Una pagina di rottura

Il lavoro d’inchiesta di Tobagi sui brigatisti di metà anni Settanta, come riporta Ferruccio De Bortoli in un editoriale sul Corriere, “li mise sul lettino dello psicanalista o davanti allo specchio non deforme della propria devianza criminale e della propria residua coscienza”. Finché “ribaltarono il lettino, ruppero lo specchio e lo crivellarono di colpi”. Il rifiuto di concepire debolezze, fragilità, la deriva irreversibile verso il crollo degli ideali che avevano animato gli albori della protesta giovanile riceve la risposta della violenza, quasi in contemporanea all’atto che sarebbe diventato il manifesto di sangue degli Anni di Piombo. La morte di Tobagi, incastonata fra l’omicidio di Aldo Moro e la strage di Bologna, rappresenta però il punto di rottura, la pagina che, più di altre, mise in evidenza il terreno scivoloso sul quale andava ormai poggiandosi una stagione di sangue che proprio alla stazione felsinea avrebbe lasciato la sua ultima e più drammatica ferita: “È riuscito a coltivare e testimoniare i suoi principi e le sue convinzioni – ha scritto sul Corriere Luca Tobagi, figlio maggiore del giornalista – nella sua vita personale e con il suo impegno professionale, senza che questo scadesse in uno schieramento che avrebbe compromesso la sua obiettività, il suo rigore e la sua umanità. Che alla fine sono le ragioni per le quali è stato ucciso. Non ha rinunciato ad applicarsi per capire il tempo in cui viveva. Non ha rinunciato alle sue opinioni politiche, ma ha scelto di rifiutare un’appartenenza politica ufficiale per poter lavorare bene e sentirsi libero”.

Walter Tobagi

Non sono samurai

La naturale predisposizione per la ricerca della verità, in un tempo in cui la verità stessa era un concetto sfuggente, espose oltremodo la figura di Walter Tobagi, con l’attentato che lo uccise quasi a testimoniare le paure che attanagliavano i sostenitori di un’eversione ormai quasi disillusa da se stessa. L’eredità di Tobagi sta forse proprio nel suo metodo di lavoro, influenzato dalla sua caratura accademica e da una spontanea predisposizione a un’informazione completa, che andasse davvero a mettere a posto i tasselli di una società devastata da una scia di sangue. Alla quale tentava di dare una spiegazione: “Tobagi mostrò un grande coraggio e un rigore etico e professionale che ha riguardato tutto il suo periodo – ha spiegato a Interris.it Roberto Carlo Della Rocca, presidente Aiviter e a sua volta sopravvissuto a un attentato brigatista -. Forse con il suo articolo ‘Non sono samurai invincibili’ venne decretata la sua condanna a morte, da dei ragazzetti della borghesia milanese che giocavano a fare i terroristi. Conosco bene quel periodo, anche se io a differenza di Tobagi, che operava a Milano, me ne stavo a Genova, all’interno di un’azienda cantieristica dove svolgevo attività dirigenziale”.

L’emblema da abbattere

Un filo rosso di testimonianze, che attraversano la stagione dell’eversione e poi quella del terrorismo: “Penso di aver capito bene le sue riflessioni e le sue considerazioni – ha detto Della Rocca -, i suoi approfondimenti di quel fenomeno terroristico che conosceva molto bene. Fu una figura estremamente importante. Avendo letto alcuni articoli, ho capito come fosse un giornalista che aveva cercato la verità”. Un impegno, quello di Tobagi, che riguardò quasi ogni campo della società dell’epoca, cercando di capirne a fondo le dinamiche e le ramificazioni, al fine di dare il senso definitivo alle sue contraddizioni: “Fu anche sindacalista, diventò presidente dell’Ordine del consiglio dei giornalisti, studiò a fondo queste problematiche e, come spesso avvenne in quel periodo, diventò l’emblema del riformista, il soggetto che doveva pagare. Perché, dal punto di vista dei terroristi, il riformista rappresentava il collegamento con una società che doveva essere abbattuta“.

Manifestanti davanti al Rettorato della Sapienza durante la “Cacciata di Lama”, il 17 febbraio 1977

Anni violenti

Furono anni violenti, frutto di una deformazione degli ideali che animarono la contestazione di fine anni Sessanta in tutta Europa, assumendo la consistenza di un’eversione che, di lì a breve, sarebbe sfociata nella violenza terroristica: “La contestazione aveva finalità sicuramente non violente. Degenerò, assunse, come fosse il virus di oggi, un cambiamento, posizioni diverse e violente… Ricordo le grandi espropriazioni proletarie, di cui forse oggi nessuno più parla. All’interno di alcune università assunse dimensioni ancora più pesanti, gli anni di autonomia in Veneto, la grande contestazione che ci fu a Roma nei confronti di Lama… Al fianco di tutto questo, il malumore e le difficoltà che c’erano allora nelle fabbriche e che culminarono in una serie di omicidi che riguardarono tante categorie: dirigenti industriali, magistrati, poliziotti e persone qualunque in alcuni casi, sindacalisti, uomini politici. Era un periodo davvero terribile, in cui non si sapeva alla fine di ogni sera, ascoltando i tg nazionali, cosa si sarebbe ascoltato. Ci si chiedeva veramente chi sarebbe stato il prossimo“.

L’eredità dello ieri ideologizzato

Difficile, per la generazione degli Anni Duemila, avvicinarsi a quella che fu la lunga stagione degli Anni di Piombo. “Era un contesto ideologizzato – ha concluso Della Rocca -, nel senso più negativo del termine, oggi non ce ne sono gli estremi ma attenzione: speriamo che questa pandemia possa non avere ulteriori recrudescenze sotto il profilo socio-economico che possano far rinascere sentimenti estremi di rabbia, violenza. Anche se non c’è l’elemento di politicizzazione estrema, anche se ne restano delle frange. Non c’è la potenzialità numerica a cui poter attecchire ma bisogna stare molto attenti”. Del resto, la memoria storica è anch’essa una prova. Forse il test maggiore in un periodo in cui la potenzialità immensa dei nuovi mezzi di comunicazione, nella sua informe consistenza, rende la ricerca della verità un compito per certi versi ancora più difficile.