Vaccino Covid-19, via ai test sull’uomo. Di Lorenzo (Irbm): “I tempi saranno lunghi”

Il presidente della società italiana partner della ricerca con lo Jenner Institute di Oxford, fa il punto a Interris.it della sperimentazione vaccinale: "Questa tragedia faccia capire la necessità dei vaccini"

In modo definitivo, se ne uscirà solo con il vaccino. Il mantra è sempre stato questo, fin dall’inizio della pandemia da coronavirus. Addirittura prima, forse, che diventasse tale. La copertura vaccinale rappresenta l’unica vera arma in grado di debellare un virus che, finora, ha dimostrato di essere in parte diverso da quelli conosciuti, senza che questo potesse impedire ai ricercatori di far tesoro degli anni di studio, trascorsi fra ricerche e sperimentazioni. Ora, la collaborazione fra lo Jenner Institute della Oxford University e l’azienda italiana Advent IRBM di Pomezia, un candidato vaccino lo ha messo a punto, avviando a partire da oggi la sperimentazione umana, su 550 volontari. Il primo step verso la definizione di uno strumento veramente efficace per offrire protezione contro il Covid-19. Ma, come spiegato a Interris.it da Piero Di Lorenzo, presidente e ad di IRBM, non è che l’inizio di un percorso, peraltro ancora ipotetico: “Se questo candidato vaccino darà prova di efficacia, occorreranno mesi per una produzione su larga scala”.

 

Dottor Di Lorenzo, in che modo si è articolata, in questi mesi, la collaborazione fra IRBM e lo Jenner Institute?
“Lo Jenner Institute è una particolare expertise per quanto riguarda i coronavirus, perché ha già studiato la Sars e messo a punto il vaccino anti-Mers, che è in sperimentazione clinica di fase 2 in Arabia Saudita. Conoscendo bene quella famiglia, quando agli inizi di gennaio i cinesi hanno isolato e sequenziato il virus, postando su internet il sequenziamento, gli scienziati dello Jenner hanno subito sintetizzato il gene della proteina Spike, la coroncina rossa sul virus, nonché responsabile dei danni che provoca. Dopodiché, avevano bisogno del nostro supporto per quanto riguarda una nostra expertise specifica, quella dell’adenovirus”.

In che modo si collegano le due expertise?
“Parliamo di un banale virus di raffreddore, che è stato a sua volta depotenziato cosicché non si possa replicare all’interno dell’organismo. Viene poi messo al suo interno il gene della proteina Spike, dopo la sintetizzazione e il depotenziamento. L’adenovirus funziona come un Cavallo di Troia, che entra nell’organismo e poi libera il gene della proteina Spike. L’organismo si allarma, perché capisce che è entrato un nemico e si mette in moto per produrre gli anticorpi che, in quel caso, sono inutili perché il gene è disattivato. Ma quegli anticorpi sono essenziali e provvidenziali nel momento in cui dovessero entrare in contatto con il gene ancora attivo”.

Come è proseguito il lavoro?
“Abbiamo messo a punto questa piattaforma, e l’abbiamo utilizzata per produrre un milione di dosi del vaccino antiebola. Così abbiamo messo a disposizione della ricerca – e dei suoi risultati – dello Jenner, l’adenovirus. Tutto questo accaduto perché noi abbiamo una collaborazione di vecchia data con l’Istituto dell’Oxford University, ormai da una decina d’anni. I nostri scienziati si conoscono molto bene. Sarah Gilbert, la capo-progetto e ‘mostro sacro’ della ricerca sui vaccini, riconosciuto in tutto il mondo, apprezza il nostro lavoro. La collaborazione è quindi quasi fisiologica”.

Ora si è arrivati allo step della sperimentazione…
“Abbiamo finito di produrre il primo lotto, spedito Oxford, dove sono stati già selezionati 550 volontari sani, i quali sono in un’età compresa tra i 18 e i 55 anni. Nel mese di maggio pensiamo che saranno espletate tutte le fasi della preparazione. Queste persone verranno vaccinate, a partire da oggi, e verranno seguite nel corso dei mesi. Saremo in grado di sapere se il vaccino è efficace già alla fine di settembre. Salvo novità dell’ultima ora”.

Qualora la sperimentazione di un vaccino dimostrasse efficacia, quanto tempo occorrerebbe per una produzione su scala globale?
“Nell’ipotesi in cui questo candidato vaccino, a fine settembre, dia prova di efficacia, diventando quindi un vaccino, a quel punto si inizierebbe la produzione su vasta scala. Ma non si tratta di processi che possono essere completati in quindici giorni. Il vaccino si produce in un laboratorio sofisticatissimo, non ce ne sono molti al mondo, così come non sono molto diffuse queste expertise. I tempi sono per questo lunghi. Tutte le multinazionali messe insieme producono 200 milioni di dosi di vaccino ogni anno, noi siamo 8 miliardi. Questo fa capire che differenza di numeri abbiamo. Il vaccino sarà pronto, come tutti ci auguriamo, per l’autunno ma serviranno mesi per ottenere un minimo di dosi. Po ci sarà una graduazione, perché prima che l’industria riesca a mettersi al passo su un’esigenza del genere passeranno tanti mesi. Prevedo che nei primi mesi dell’anno prossimo si possa già vaccinare una parte delle categorie più fragili, e poi man mano passare agli altri. Ma la vaccinazione di massa non si realizzerà entro sei mesi, ci vorranno tempi lunghi”.

Vista la particolare forma di coronavirus rispetto ad altri già conosciuti, per la fase di ricerca sono state utilizzate, come basi di partenza, le basi di altre esperienze vaccinali o è stata necessaria una ricerca esclusiva?
“Si utilizza tutta l’esperienza maturata in anni e anni di studio. La ricerca scientifica e biomedica, non si fa in momenti di emergenza ma quando questa non c’è e ci si prepara ad affrontarla. Se non ci fossero stati quindici anni di studio non staremmo parlando della possibilità di avere un vaccino ma dell”impossibilità di averne uno”.

L’emergenza coronavirus ha contribuito, secondo lei, a rivedere la considerazione generale dell’opinione pubblica sull’importanza dei vaccini?
“Il compito dei media dovrebbe essere proprio quello di sensibilizzare sull’importanza dei vaccini e della ricerca, che è sempre stata una cenerentola, perché i risultati si vedono solo dopo anni.  Probabilmente anche un evento luttuoso come questo qualcosa di buono può forse portarla, ci sta dando un messaggio sull’importanza di trovarsi pronti quando arriva una situazione del genere. La ricerca ha tempi lunghi e costi alti ma è alla base non solo della durata di una vita più lunga ma anche della qualità della vita. Non è la stessa cosa andare al parco o stare a casa per paura di un vicino. Influisce molto pesantemente sulla qualità e sullo stile di vita. Quando si ha tutto non si pensa che sia una gentile concessione ma un diritto acquisito. E quindi arrivano i momenti in cui ci si deve rendere conto di questo. La raccomandazione è che si capisca l’importanza della ricerca e dei vaccini. Tante cose terribili non si vedono più perché ci sono i vaccini. Ricordo che nella mia classe, in prima elementare, c’era un bambino poliomelitico. Immagina un bimbo di sei anni che cammina con le stampelle? E’ un’immagine che ho ancora impressa nella mia mente. Quello che abbiamo ricevuto è un grande ceffone. Speriamo che le persone prendano questa lezione per capire e per fare una riflessione”.