Il tatuaggio: “moda” e omologazione

Dalla simbologia legata alla mala vita alle immagine che altro non sono che un tentativo pagano di irridere alla fede: le contraddizioni più evidenti

I tatuaggi hanno una storia millenaria e universale, esprimono, a detta di chi li riceve, la propria personalità, da tirar fuori per trasmettere, così, un messaggio al mondo e alla vita. I simboli utilizzati nei secoli sono stati di ogni tipo e ciascun’epoca ha avuto i suoi più caratteristici. Alcuni sono più duraturi e tradizionali, specifici, come quelli di carattere “criminale”, per ricordare i trascorsi da detenuto. “Non farete incisioni nella vostra carne per un morto, né farete alcun tatuaggio su di voi. Io sono l’Eterno”. Levitico (19:28).

Il tatuaggio, colpa e peccato, è una dedicazione definitiva, un sacrificio del corpo e della persona; si intende aggiungere un qualcosa che, alla nascita del singolo, non era previsto. Il detto “cosa vuoi che sia, un piccolo innocente disegno sulla pelle…” costituisce il principio, sottile e subdolo, di quell’abbandono e di quella disobbedienza che si attuano anche attraverso la locuzione “cosa vuoi che sia perdere una Messa, per una volta…”.

Lo scrittore Fabio Brivio è l’autore del volume “Cuori trafitti, Madonne e sirene” (sottotitolo “Significati e tradizione del tatuaggio in Italia”), pubblicato da “Gribaudo” nel settembre dello scorso anno. Si tratta di un testo che ripercorre la storia, il senso e la simbologia del fenomeno in Italia.

Il quotidiano digitale “Affaritaliani.it” ha riportato, nel maggio scorso, una ricerca sul boom del fenomeno. Fra i dati, si legge “Le attività che si concentrano su tatuaggi e piercing sono oltre 6.000 solo nel nostro Paese, e i numeri sembrano destinati a lievitare ulteriormente. Basti pensare che nel 2012, la cifra non arrivava neanche a 1.350 attività, per una crescita che ha oltrepassato il +350%. Dando un’occhiata ai numeri su base regionale, la Lombardia spicca rispetto al resto d’Italia con il doppio delle strutture rispetto alla seconda, ossia il Lazio. Seguono Toscana, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto, mentre la graduatoria viene chiusa da Basilicata, Molise e Valle d’Aosta. A tutto ciò, bisogna aggiungere un aumento sostanziale nelle attività portate avanti dal pubblico femminile e dai giovani. Circa il 37% delle imprese che si occupano di tatuaggi e piercing viene supervisionato da donne, mentre il 43% viene guidato da persone con età inferiore ai 35 anni. […] Circa 7 milioni di persone possiedono almeno un tattoo, ossia poco meno del 13% della popolazione totale. Le donne tendono a tatuarsi con maggiore frequenza rispetto agli uomini e si concentrano su piedi, caviglie e schiena, mentre i maschi prediligono spalle, braccia e gambe. Ormai fare a meno di un tatuaggio diventa sempre più difficile e la clientela è davvero trasversale, andando dai giovanissimi a persone più anziane”.

L’Unione Europea è corsa ai ripari e, dal 4 gennaio scorso, ha imposto delle misure severe affinché, per i tatuaggi, si usino miscele e inchiostri sicuri e non dannosi per la salute come avveniva nel passato.

Il sito della Polizia Penitenziaria nel settembre 2018 evidenziava un cambiamento di mentalità. Si leggeva: “Da una ricerca svolta presso le carceri romane di Regina Coeli e Rebibbia femminile, in tema di ‘tatuaggi sulla persona detenuta’, è emerso come la modalità di comunicazione non verbale della popolazione detenuta nel corso degli anni ha subito una profonda trasformazione. In passato, tatuarsi in carcere ostentava l’essere stato in ‘galera’ (anche perché i tatuaggi realizzati con il metodo della ‘puntura a mano’ creavano segni distintamente imperfetti, quindi con un aspetto più primitivo), rappresentava motivo di orgoglio, ovvero, intimava rispetto nel gergo carcerario ed incuteva timore nelle persone della società libera. […] Nei tempi moderni tatuarsi simboli ‘vicino’ alla cultura criminale, quali farfalle (simbolo di libertà), la bara (espressione di ‘meglio morto che infame’, non tradire, non fare nomi), ecc. è considerato, dagli ambienti malavitosi, come atteggiamento immaturo e gradasso”. La criminalità “predilige persone incensurate, che non attirino l’attenzione delle forze dell’ordine”.

Riguardo a questi simboli di tipo criminale, inoltre, si ritrovano contenuti, articoli, scoop e documenti discordanti: si usano, infatti, titoli e locuzioni quali “il linguaggio segreto…” o “il mistero dei tatuaggi della malavita”, salvo, poi, spiegarne, dettagliatamente, il significato e l’origine. Il web e la letteratura riportano moltissime informazioni sul tema.

Si assiste, da qualche anno, a una nuova “moda”: tatuarsi il viso, in parte o quasi del tutto. Ragazzi comuni e star di generi musicali “rapper” e “trapper” si dipingono, infatti, la faccia di vari disegni e aforismi “perduti nel nulla” (come direbbe Rino Gaetano). Bozzetti a stupire e frasi a effetto, divengono, quindi, il necessario corollario di moda e fama, il primo biglietto di presentazione all’altro, al mondo.

“Face tattoo” è, quindi, una nuova tendenza: ad ammirarli, per primi, ci sono i giovanissimi dei social. Sono pronti a emulare. Le motivazioni alla base di questa nuova moda non sono chiare, per alcuni significa mettersi alla prova, come uno sprone continuo che deve spingere a realizzarsi, forzatamente, in modo non convenzionale, non noioso, non riferibile a tediose occupazioni impiegatizie. Un dubbio amletico s’impone: il tattoo sul viso certifica il successo del cantante o è un mezzo per conseguirlo?

Alcuni rapper e trapper, scimmiottano questa simbologia deviante per darsi un tono di trasgressione e di “duri”, capace di attirare le attenzioni dei giovani pendenti dalle loro labbra e dai loro disegni. Il tatuaggio dice più del testo di una canzone (del resto, musicalmente, a livelli modesti, con contenuti molto approssimativi), per cui l’attenzione, verso l’idolo, necessariamente da venerare, si sposta sul messaggio epidermico. Nascono “profonde” disquisizioni sull’argomento, poi si avverte la scelta, quasi obbligata, di copiare e di omologarsi. Anche gli addetti del settore sono giunti a sconsigliare il ricorso ai simboli usati dai detenuti per il solo obiettivo di rendersi più “duri” dinanzi agli altri, spopolare nel web e nel contesto sociale che si frequenta.

L’apparenza, infatti, nella sua famelica sete, risucchia qualsiasi logica e pretende l’eccesso. Per “vantare” esperienze carcerarie, carriere status e curriculum del genere, alcuni ricorrono a una scorciatoia: utilizzare i disegni “proibiti”. Alcuni simboli sono tipiche e facili rappresentazioni di esperienze carcerarie, come la lacrima che sgorga dall’occhio, la ragnatela, volta a far ricordare la tristezza e la noia di anni trascorsi tra le sbarre, l’orologio senza lancette e la sua valenza del tempo infinito e indefinibile da trascorrere in galera.

Ci sono, poi, i “punti della mala”, da 3 a 5 (in quest’ultimo caso a significare le 4 mura e il detenuto all’interno), ora attribuiti alla malavita russa (ritenuta molto legata ai simboli negativi) ma, in realtà, conosciuti da vecchia data, da decenni.

Una delle contraddizioni più evidenti, che pone a repentaglio gli equilibrismi per spiegare la valenza dei messaggi inoltrati via tattoo, è quella che accosta, spesso, immagini trasgressive e profane a quella della croce o ad altre di carattere religioso. Si tratta di un tentativo pagano di irridere la fede, un mezzuccio trito e ritrito, per il quale i dispensatori della “luce”, del “lume” contemporaneo, marchiati ma liberi, si sentono paladini di verità che sono, invece, inaccessibili ai credenti creduloni, per giunta con la pelle immacolata.