La Chiesa del futuro ha un cuore antico. A mezzo secolo dall’assise dell’arcidiocesi di Cracovia, emerge il ruolo del sinodo in cui Karol Wojtyla progettò la Chiesa del futuro. Giovani, laici, donne. Gli uffici diocesani di 50 anni fa in Polonia diventeranno dicasteri vaticani sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II.
In un angolo dell’Europa orientale cinquant’anni fa si preparava la spallata alla tirannide del totalitarismo sovietico. Un modello di Chiesa saldo e propositivo. Forte della propria identità e aperto all’innovazione ecclesiale e all’impegno sociale e politico. Sei anni dopo il Sinodo del 1972 dall’arcidiocesi di Cracovia Karol Wojtyla passerà al Soglio di Pietro. E cambierà la storia dl ventesimo secolo. “Sarebbe ridicolo ritenere che sia stato il Papa ad abbattere con le proprie mani il comunismo“. Scriveva così Giovanni Paolo II. Pochi mesi prima di morire. Nel suo libro “Memoria e identità”. Ed era la verità. La verità della storia. La verità di ciò che era accaduto nell’Europa dell’Est sul finire del secondo millennio.
I fatti del 1989, rileggendoli oggi, avevano colto di sorpresa tutti. Erano arrivati all’improvviso. Anzi, proprio per i loro sviluppi incruenti. In modo inatteso, inaspettato.
Incredulo l’Occidente. Presi in contropiede, sconvolti, i dirigenti dell’Urss
Eppure, il 1989 aveva avuto una lunga gestazione. Una gestazione sotterranea. Come un fiume carsico. Avviata dall’Atto finale di Helsinki nel 1975. Mosca aveva ottenuto quel che voleva. L’inviolabilità delle frontiere. Quindi la riconferma della divisione dell’Europa in due, come aveva preteso Stalin a Yalta. Ma da Helsinki era anche uscito il sostegno alla causa dei diritti umani. Al rispetto delle libertà individuali e collettive. Compresa la libertà religiosa. E, tutto questo, aveva aperto una crepa nell’impero sovietico. Una fenditura che, allargandosi sempre più, aveva corroso dall’interno l’ideologia marxista. Nello stesso tempo, il 1989 aveva avuto anche una preparazione, per così dire, visibile, alla luce del sole. C’era stata la rivoluzione ungherese (1956). E la Primavera di Praga (1968). Ambedue soffocate tragicamente nel sangue. Ma poi, dall’inizio degli anni Settanta, il dissenso era spuntato un po’ in tutto l’Est europeo. Anche se in forme e modalità assai differenti. In Cecoslovacchia, era nata Charta 77. Una protesta di élites. Di circoli intellettuali. Mentre, in Polonia, il contrasto si era via via trasformato in un movimento di popolo.
In Polonia, appunto. Un Paese con una popolazione a grande maggioranza cattolica. E dove la Chiesa, forte, compatta, aveva un profondo radicamento in tutti i settori sociali.
Nel 1956, a Poznań, c’era stata la prima delle “piccole rivoluzioni”. Come le chiamava il primate, il cardinale Stefan Wyszyński. Ma pilotata da ambienti revisionisti. Ancora interna al sistema. Così era finita nel nulla. Nel 1968, a rivoltarsi erano stati intellettuali e studenti. Nel 1970, sul Baltico, la prima vera rivolta operaia. I primi sindacati clandestini. Nel 1976, a Radom e Ursus, erano di nuovo scesi in piazza i lavoratori. Ma stavolta con l’appoggio degli altri gruppi social. Da quella inedita solidarietà, quattro anni dopo, sarebbe nato il primo sindacato libero nell’impero comunista.
Intanto, però, c’era stato un evento straordinario. Il 16 ottobre del 1978 dal conclave era uscito eletto proprio il cardinale Karol Wojtyla. Arcivescovo di Cracovia. Il primo Papa non italiano dopo quattro secoli e mezzo. Un Pontefice che veniva dall’altra parte della “cortina di ferro”. Ed è qui che la storia aveva avuto un soprassalto. Perché, proprio grazie a chi in quel momento sedeva sulla cattedra di Pietro, Solidarność prima aveva resistito alla repressione. E poi era diventato l’apripista del grande cambiamento in senso democratico all’Est. “Il comunismo è morto di comunismo. Il moloch ha divorato se stesso”, scriverà Enzo Bettiza. Ma era stata la Polonia, “protetta” dal suo Papa, a dare il colpo del ko al regime marxista. Ad accelerarne il tracollo. Il definitivo fallimento.
Lo aveva riconosciuto anche Michail Gorbaciov. Arrivato in Vaticano nel dicembre del 1989. “Tutto ciò che è successo nell’Europa orientale in questi ultimi anni non sarebbe stato possibile senza la presenza di questo Papa. Senza il grande ruolo, anche politico, che lui ha saputo giocare sulla scena mondiale“. E se invece di un Papa polacco, e dunque un pontefice con quella provenienza, con quella biografia, con quella esperienza, ci fosse stato un Papa arrivato da un altro Paese comunista? Ad esempio, diciamo, ungherese, oppure cecoslovacco, o tedesco-orientale. Ebbene la caduta del Muro e il tramonto del marxismo sarebbero avvenuti in tempi così incredibilmente brevi? E senza contrasti, senza gravi contraccolpi e, soprattutto, senza spargimenti di sangue?
E ancora. Se quel 13 maggio Ali Ağca avesse mirato più “giusto” di come aveva tentato di fare. E, molto probabilmente, di come gli avevano ordinato di fare. “Ma lei perché non è morto?“, chiese a Giovanni Paolo II andato a trovarlo in carcere. Dunque se quei colpi fossero arrivati a segno. La storia dell’Europa, ma anche quella del mondo intero, sarebbero andate nel modo in cui sono andate? Infatti, oltreché per la riunificazione dell’Europa, l’azione svolta da papa Wojtyla si era sviluppata su vari fronti. Era stata determinante per il ritorno di molti Paesi latino-americani alla democrazia. Per ridare voce e dignità ai popoli del Sud. E, al tempo dei conflitti del Golfo, per evitare una spaventosa “guerra di civiltà”.
I suoi viaggi avevano fatto sì che la Chiesa– con una crescente autorevolezza morale – fosse più vicina al mondo. E il mondo, a sua volta, più vicino alla Chiesa. E spesso, nei momenti di crisi dell’umanità, con i “grandi” della terra pavidi e silenziosi, era stato soltanto lui, Karol Wojtyla, a parlare. A intervenire. A denunciare. Soltanto lui a testimoniare la speranza in un futuro che poteva essere diverso. Nel segno della pace, della giustizia. “Tutto può cambiare”, ripeteva di continuo. “Sì, noi possiamo cambiare il corso degli eventi“.
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