Si chiama “sindrome di Procuste” ed è l’invidia che genera arrivismo senza qualità

La locuzione “Sindrome di Procuste” definisce una patologia mentale, di ampia diffusione nel mondo, soprattutto in questi mesi di grave crisi economica, in cui si soffre la competitività e si prova invidia per coloro che appaiono più brillanti fino a screditarli in ogni modo. Chi ne soffre, cerca, con tutti i mezzi possibili, di denigrare e di offuscare, agli occhi del prossimo, nel lavoro e nella società, la bravura altrui. L’obiettivo è anche quello di demolire mentalmente l’altro e di ridurlo in uno stato di imbrigliatura, di annientamento del suo talento, per non essere sopravanzati. Nei casi più gravi, per notevole carenza di autostima, si origina anche in assenza del presunto pericolo di essere scavalcati.

L’antica origine si intuisce già dal nome: deriva dal personaggio mitologico, dell’antica Grecia, di Procuste, un locandiere senza scrupoli che soffriva l’aspetto fisico degli ospiti e non esitava a mutilarli, sorprendendoli nel sonno, pur di primeggiare. Il “letto di Procuste” divenne, così, celeberrimo sia per le torture che questa figura impartiva sia per il significato più recondito di una forzata omologazione del genere umano.

La psicologia moderna, per descrivere il fenomeno, utilizza la definizione di “competitività negativa”.

L’origine, dunque, è antica ma la crisi occupazionale, acuita in questi ultimi mesi, è il volano che, purtroppo, tende a produrre un’accelerazione e un maggiore conflitto tra lavoratori pur di scalare posizioni o di mettere più al sicuro il proprio posto a discapito di quello altrui.

Gli individui che ne soffrono sono frustrati e provati a livello mentale, con scarsissima autostima o, per paradosso, una smisurata convinzione nei propri mezzi, che si illudono di poter primeggiare a scapito dell’altro ma rischiano di esserne essi stessi invischiati. In questo, insegna anche la stessa vicenda di Procuste il quale finisce per subire l’identica sorte delle sue vittime.

Lo scrittore francese Pierre Daninos affermava puntualmente, centrando in pieno la problematica “Gli uomini non conoscono la propria felicità ma quella degli altri non gli sfugge mai”.

Da dove nasce la sindrome di Procuste

La sindrome nasce da un senso di invidia molto radicato che conduce il soggetto “malato” a comportamenti ed espressioni verbali (delazione) di rara crudeltà, strategici, ripetuti e funzionali finché non si ottiene l’agognato svilimento del prossimo, nel lavoro, nella scuola, nella società in generale. Per tale motivo, la sindrome si pone proprio all’opposto del comportamento ideale e cristiano che ognuno dovrebbe porre in atto. Si configura come l’antitesi perfetta di un agire che, anziché aiutare il prossimo in difficoltà, di confortarlo e stimolarlo, cerca di affossarlo con tutti i mezzi sleali concepibili.

L’ambiente lavorativo è il classico esempio in cui può scaturire la diceria, il chiacchiericcio pur di screditare il collega. Si parla, infatti, sempre di più, del cosiddetto “mobbing orizzontale”, quello perpetrato da colleghi di pari livello, in cui gli effetti sono devastanti, a livello mentale e fisico sino a giungere al licenziamento. Si tratta anche di un’arma a doppio taglio: il datore di lavoro cerca di ottenere notizie da spie e delatori o non disdegna di avere informazioni ma si salva dalla sanzione prevista dalla legge solo se dimostra di non essere venuto a conoscenza degli atti persecutori e vessatori.

Il dottor Herald Ege, psicologo e fondatore di Prima (Associazione Italiana contro Mobbing e Stress psico-sociale) riferisce che il mobbing orizzontale coinvolge almeno 5 milioni di persone (parenti e amici oltre alla vittima in sé).

In un interessante ricerca, condotta con domande a risposta multipla, riguardante il mobbing, visibile al link https://www.uniroma1.it/sites/default/files/menelao.pdf, la psicologa Alessandra Menelao analizza le varie tipologie delle “relazioni fra colleghi”. Al primo posto (75,6%) spicca il “bisogno di una maggiore collaborazione e comunicazione”, al secondo “provo sentimenti di irritazione” (60,6%) al terzo (58,6%) il “rapporto difficile”, segue “prendere in giro per un segno particolare” (46,6%), poi “trattato male dai colleghi” (46%), “si dicono cose false su di me” (45%), “i miei colleghi non mi parlano” (44,2%), “merito di essere trattato meglio dai colleghi” (42,6%), “sono stato ridicolizzato” (38,8%), per ultimo “ambiente relazionale tra colleghi piacevole” (17,6%).

La società moderna non spicca certo per meritocrazia, tuttavia è controproducente ergersi a sistematici e perpetui giustizieri della propria condizione, soprattutto se questa esigenza tenda a strutturarsi a danno dell’amico o del collega. Le valutazioni personali riguardo l’altrui incapacità o, al contrario, la grande competenza da annullare, non godono di universalità o di oggettività. Per questo, è preferibile meditare sulle possibilità personali, notare la trave nel proprio occhio e cercare di migliorare in maniera sana e corretta le competenze possedute.

La malafede

Il soggetto invidioso è in malafede, convinto di essere sempre minacciato dal prossimo e vede, in genere, un pericolo in ogni cambiamento di status.

Non si tratta di sana competitività che sia, oltremodo, in grado di far scaturire dal singolo le potenzialità innate e inespresse, poiché la sindrome spinge sino agli effetti più squallidi e disumani, distorcendo la mente e glorificando, al massimo livello, l’arrivismo, a costo di detronizzare anche i familiari.

Avere degli obiettivi e perseguirli è lecito e auspicabile; è necessario, tuttavia, che siano ottenuti nel rispetto delle regole e degli altri esseri umani, senza scorrettezze. Ciò che fatica a essere compreso, soprattutto nella moderna società arrivista e competitiva, è l’accettazione di una maggiore competenza dell’altro in un determinato settore. L’esigenza dell’essere tuttologi e onniscienti spinge a ritenersi infallibili in tutto e a non riconoscere le possibilità finite dell’individuo né la specializzazione delle competenze di ognuno, anche delle proprie.

La competitività insana e l’arrivismo conducono soltanto all’indifferenza, ad ampliare la forbice sociale e a danneggiare, in ultima analisi, sia i più deboli sia coloro che, provvisoriamente, si illudono dell’effimero e di aver guadagnato qualcosa scalzando il prossimo.