Salute e lavoro: che cos’è lo Straining

Straining è un termine inglese, derivante dal verbo to strain che significa “mettere sotto pressione”, utilizzato nel nostro Paese da poco più di un ventennio, per definire un’azione, apparentemente attenuata, di mobbing. Si differenzia da questo perché l’evento discriminatorio (a esempio il demansionamento) è isolato e non continuativo nel tempo.

Si tratta di una fattispecie poco conosciuta e trattata raramente dai media, soprattutto in relazione all’incidenza nelle situazioni lavorative.

Nel 2019, il professor Harald Ege, esperto in materia, ha pubblicato, per Giuffrè Francis Lefebvre, il volume dal titolo “La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining”.

Al dottor Ege, autore di altre pubblicazioni nel settore, va il merito di aver coniato il termine “straining”. Quest’ultimo non ha una giurisprudenza specifica poiché rientra in quella più generica del mobbing.

Il comportamento del datore di lavoro (lo strainer), dunque in superiorità gerarchica, determina delle condizioni lavorative stressanti per il dipendente. Altri presupposti essenziali sono quelli dell’intento persecutorio e della durata: il verificarsi dell’evento deve aver avuto origine da almeno 6 mesi.

Il primo riconoscimento dello straining è avvenuto con una sentenza del Tribunale di Bergamo (n. 286 del 21/04/2005) in cui, per una dipendente demansionata, isolata e privata del proprio materiale lavorativo, il giudice ha individuato la specifica fattispecie e ha costretto il datore di lavoro a un risarcimento economico.

Lo straining è considerato un minus del mobbing; prima della suddetta sentenza, era complesso far rientrare i singoli casi di vessazione e stress lavorativo nella casistica del mobbing. La peculiarità dell’atto vessatorio unico e non reiterato, infatti, escludeva una delle condizioni necessarie e simultanee per configurare il reato di mobbing.

Il significato di “minore”, di “meno” non deve ingannare in quanto le complicazioni psicologiche, fisiche e relazionali generate dallo straining sono ugualmente devastanti. In alcune circostanze, non è la reiterazione dell’atto persecutorio a determinare la gravità delle conseguenze: l’isolamento, il trasferimento, il demansionamento, il carico di lavoro enorme o l’assenza di mansioni, la violenza e gli attacchi sono, ognuna, una condizione stressogena che ha effetti durevoli nel tempo. L’azione illecita, dunque, pur essendo isolata e non continuativa, è sufficiente a scatenare danni irreparabili alla salute mentale, fisica e all’immagine del lavoratore nel contesto lavorativo, andando anche a intaccare la sua autostima.

L’integrità psico-fisica è posta a repentaglio e determina il ricorso a strutture specifiche con l’intervento di professionalità nel settore: psichiatri, psicologi, psicoterapeuti.

Altalex, quotidiano on line di informazione giuridica, al link https://www.altalex.com/documents/news/2016/04/22/danno-da-straining-sufficiente-anche-una-sola-azione-ostile, ricorda una sentenza (n. 3291 del 19/02/2016) confermata dalla Cassazione “Flavia M., neurologa, dipendente dell’Azienda Ospedaliera di Brescia ha chiesto al locale Tribunale, tra l’altro, di condannare al risarcimento del danno non patrimoniale per il trattamento ostile e svilente, definito ‘mobbing’, tenuto verso di lei dal primario del reparto. Il Giudice ha nominato un CTU che ha accertato un danno biologico del 10% in relazione ad un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso poi cronicizzato. Sono venuti in considerazione due episodi, verificatisi nel corso di un anno, per i quali il primario è stato condannato in sede penale per l’atteggiamento ingiurioso tenuto verso la collega. Pertanto il Tribunale ha accolto la domanda determinando il risarcimento in € 30.000,00. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Brescia, che ha peraltro modificato la qualificazione del trattamento subito dalla neurologa definendolo ‘straining’”.

Nella sentenza si ribadiscono concetti fondamentali “è sufficiente, come si è detto, anche un’unica azione ostile purché essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori; 1) nella specie si riscontrano tutti i parametri di riconoscimento dello straining: ambiente lavorativo; frequenza e durata dell’azione ostile (nella specie almeno semestrale), le azioni subite appartengono ad una delle categorie tipizzate dalla scienza (che sono: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza), posizione di costante inferiorità percepita come permanente”.

I dati del fenomeno a livello più generico, nel mare magnum del mobbing, sono così riassunti, in uno studio denominato “I quaderni del mobbing 2015-2018”, effettuato dall’associazione di volontariato Risorsa-Prevenzione mobbing e disagio sul lavoro “Stime allarmanti quantificano in dodici milioni il numero dei lavoratori interessati dal fenomeno in ambito U.E., pari all’8% degli occupati. Inoltre, secondo l’ultimo sondaggio di opinione paneuropeo (EU-OSHA, 2014), il 51% degli intervistati ritiene che nel proprio luogo di lavoro siano presenti forme di stress lavoro-correlato, e quasi la metà pensa che questo non sia adeguatamente gestito all’interno della propria organizzazione. Si calcola che nel nostro Paese vengano colpiti dal mobbing un milione e mezzo di lavoratori su 21 milioni di occupati, maggiormente nelle regioni del Nord, determinando in qualche modo il coinvolgimento di 5 milioni di persone (specialmente in ambito familiare). Secondo l’ISPESL ad esserne più colpiti sarebbero i lavoratori maschi, in prevalenza quadri e dirigenti, e maggiormente nel settore pubblico. E si tratta di dati ragionevolmente sottostimati, considerato anche il tipico corollario di spettatori passivi (che pur non essendone direttamente responsabili scelgono l’indifferenza, magari senza rendersi conto della portata delle conseguenze), e di spettatori attivi (side mobbers), i cui atteggiamenti deprimono ulteriormente la reattività della vittima, ostacolando l’emersione totale del problema”.

Il mondo lavorativo, quindi, si mostra nella sua conflittualità, con la sua immagine cinica e immorale quando l’alternativa dovrebbe essere quella di un luogo in cui stimolare le attitudini, le competenze e, in uno spirito di collaborazione, attuare il bene di tutti e di ognuno, dal punto di vista professionale e umano. Non è retorica: è la giusta destinazione alla quale dovrebbe tendere l’essere umano, sulla scorta degli errori dei secoli passati.

Le famiglie faticano a trovare il loro equilibrio nei vari ruoli e l’ambiente di lavoro non sempre contribuisce a garantire quella serenità che potrebbe essere d’aiuto nelle dinamiche domestiche, anzi, va a implementare le ansie, la depressione e l’alterazione mentale.

La giurisprudenza e la psicoterapia intervengono a colmare l’assenza di comportamenti secondo morale, secondo coscienza. Alla fine, in un boomerang sottile ma reale, ne soffre l’intera società: sia chi subisce l’atto vessatorio sia chi lo commette e, di riflesso, l’intera comunità.