Dalla Romania a vescovo ausiliare di Roma: la storia di “don Ben” Ambarus

“Mai in vita mia mi sarei aspettato di diventare vescovo ausiliare di Roma!”. A raccontarlo, a Interris.it, è monsignor Benoni Ambarus. Lo scorso 2 maggio il cardinale vicario Angelo De Donatis gli ha conferito l’ordinazione episcopale nominandolo nuovo vescovo ausiliare della diocesi di Roma e titolare di Tronto.

Il nuovo vescovo ha la delega alla Carità, alla Pastorale dei migranti (in particolare Rom e Sinti) e l’incarico dell’Ufficio missionario diocesano. Un ministero, quello di “don Ben” – come ama farsi chiamare anche adesso che è diventato “eccellenza reverendissima” – che avrà una continuità nell’aiuto del prossimo, dei più deboli, degli emarginati: compito che lo ha distinto negli anni di servizio alla Caritas diocesana di cui è stato direttore per quattro anni fino alla nomina a Vescovo.

Vicariato
Il vescovo Ambarus quando ere il direttore della Caritas diocesana

La lunga strada dalla Romania a Roma

La storia di “don Ben” parte da una Nazione lontana, ma vicina all’Italia per le radici culturali e religiose: la Romania. Don Ambarus è infatti nato il 22 settembre 1974 a Somusca-Bacau. Entra al Seminario Minore della diocesi di Iasi, sempre in Romania, nel 1990; consegue la maturità nel 1994 e quindi, fino al 1996, frequenta il Seminario Maggiore di Iasi.

Il 23 novembre del 1996 – a soli 22 anni – la svolta: arriva a Roma presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore, dove completa gli studi e consegue il baccalaureato in Teologia. Il 29 giugno del 2000 viene ordinato presbitero a Iasi. Ma poi rientra a Roma, dove, nel 2001, consegue la licenza in Teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana.

Dopo la laurea, iniziano gli incarichi come pastore. Dal 2001 al 2004 svolge il servizio di educatore al Seminario Romano Maggiore; dal 2004 al 2007 è collaboratore parrocchiale a San Frumenzio ai Prati Fiscali; dal 2007 al 2010 è viceparroco presso la stessa parrocchia. Dal 2010 al 2012 è invece viceparroco nella comunità di Santa Maria Causa Nostrae Laetitiae a Torre Gaia. Nel 2012 don Ambarus diviene parroco dei Santi Elisabetta e Zaccaria a Valle Muricana: sarà la prima parrocchia a ricevere la visita pastorale di Papa Francesco, il 26 maggio del 2013.

Infine, la “grande avventura” nella Caritas diocesana: nel 2017 è vicedirettore e poi direttore, carica che mantiene fino alla nomina a Vescovo ausiliare. Il Vescovo ausiliare è, nella Chiesa cattolica, un ulteriore vescovo assegnato ad una diocesi come supporto al vescovo diocesano; nel caso di don Ben, è dunque di aiuto al cardinale vicario Angelo De Donatis nel seguire ed essere di supporto alle parrocchie e i movimenti della diocesi di Roma.

Il cardinale vicario Angelo De Donatis nomina don Ambarus vescovo vicario della diocesi di Roma

“Non è facile per nessuno – aveva detto proprio il cardinale vicario Angelo De Donatis durante la nomina di don Ambarus – incarnarsi in una realtà umana ed ecclesiale diversa dal proprio Paese d’origine. L’esperienza personale ha reso don Ben molto sensibile alle condizioni di chi vive in mezzo a noi da immigrato in una terra straniera, alla ricerca di un lavoro e di una condizione stabile. Stiamo parlando di una porzione enorme degli abitanti di questa città: oltre mezzo milione di persone, il 12,8% della popolazione romana. L’episcopato di don Ben è segno concreto dell’attenzione di Papa Francesco verso questa realtà umana, in particolare verso le tante comunità cristiane cattoliche (sono più di 150) che ogni domenica si riuniscono con il loro cappellano per la celebrazione dell’Eucarestia”.

L’intervista al vescovo Benoni Ambarus

Lo scorso maggio è stato proclamato nuovo vescovo ausiliare della diocesi di Roma e titolare di Tronto, se lo aspettava?
“Assolutamente no! Ero ancora nel pieno del servizio alla Caritas diocesana di Roma, in piena pandemia. E in generale mai in vita mia mi sarei aspettato di diventare vescovo!”.

Onore ed onere?
“Sì. Sono ancora stupefatto della nomina e mi chiedo ‘ma è vero?’. Non riesco mai ad abituarmi – e lo dico in senso positivo – delle sorprese che il Signore mi fa e questa è stata certamente una delle più grosse in assoluto. Ho risposto di sì alla chiamata di Pietro con grande rispetto per l’autorità e il ruolo e un po’ di timore”.

Quai sono stati gli aspetti più significativi di questi primi mesi da vescovo ausiliare della diocesi di Roma?
“In questi mesi rispetto alle deleghe che ho [Carità, Pastorale dei migranti e Ufficio missionario diocesano, ndr] sono andato a visitare le varie realtà di carità romane. Sono tantissime e perciò impiegherò dei mesi per visitarle tutte. Alcune le avevo conosciute nei miei anni alla Caritas, ma sono molte più di quante potessi immaginare. Inoltre, ho scoperto che il popolo di Dio in Roma è formato dai popoli del mondo: ci sono un’enormità di diversità, riti, lingue, comunità etniche”.

Quali riti ci sono a Roma?
“Il rito romano è senz’altro il più largamente diffuso, sia in Italia, sia nel mondo. Ma la Chiesa Cattolica conta ben 23 riti diversi. A Roma abbiamo tutti i tipi di riti: latino, ortodosso, alessandrino, bizantino, copto, antiocheno, congolese, siro malabarese, armeno, maronita… Insomma, un caleidoscopio di lingue e popoli che pregano un unico Padre Celeste”.

Che effetto le fa entrare in comunione con i fedeli di altri riti?
“E’ bellissimo, è come fare il giro del mondo: la mattina mentre celebro la Messa sembra di essere in Ucraina col rito orientale; a fine mattinata in India con la comunità indiana di rito latino e così via. Sto scoprendo un’enorme ricchezza in questa diversità”.

Dove vede questa ricchezza?
“Nella presenza massiccia di comunità straniere: oltre 500mila persone a Roma. Questo non significa singoli, ma famiglie piene di vita. E significa anche figli che sono nati in Italia ma che respirano la cultura d’origine dei genitori. La sociologia li chiama ‘italiani di seconda generazione’, ma loro amano definirsi ‘i nuovi italiani’. E hanno qualcosa di speciale…”

Cosa li rende speciali?
“I giovani sono tutti speciali. Non sono solo il nostro futuro, ma anche il nostro presente. Dobbiamo dedicare loro massima attenzione. I nuovi italiani rappresentano un laboratorio interculturale di cui abbiamo poca percezione, ma che rappresenta un importante contributo alla società”.

Perché?
“Perché il bi-culturalismo è sempre una ricchezza: questi ragazzi crescono respirando la cultura d’origine dei loro genitori e al contempo sono italiani. Mi sento di dire che – grazie al loro doppio bagaglio culturale – hanno quasi una marcia in più rispetto ai loro coetanei. Riescono a rapportarsi con chi è ‘diverso’ con grande facilità, poiché anche loro spesso sono visti come ‘diversi’; magari per il colore della pelle. Anche se poi parlano italiano meglio di tanti ‘vecchi’ italiani. Insomma, c’è a volte del pregiudizio nei loro confronti; ma sono davvero ragazzi in gamba che – con la loro vita – portano inclusività, dialogo, culture, sapori, colori nuovi agli altri loro coetanei. E, tutti i ragazzi insieme, portano ricchezza a noi adulti, che – invece di giudicarli – dovremmo imparare ad ascoltarli di più”.