“Pandemie mediali”: ecco perché i media aiutano nella lotta al virus

"I media ci hanno permesso di stare al passo con la situazione e di capire come si stava evolvendo" sono le parole di Marica Spalletta, docente universitaria e coautrice con Vania De Luca, giornalista Rai, del volume "Pandemie mediali". Un modo per riflettere sul ruolo della comunicazione e sul come si stia evolvendo durante questi mesi

Come è cambiata la comunicazione durante questi mesi? Qual è stato il ruolo della Chiesa? Quali sono stati i “riflettori” accessi nelle regie televisive e nelle redazioni dei giornali? Il covid si è presentato come un virus globale che ha ridefinito tempi e modi del nostro vivere quotidiano e ne ha infettato ogni ambito, dalla politica dell’economia, dalla scuola nel lavoro, insinuandosi nelle dinamiche democratiche e generando una vera e propria pandemia anche nell’ecosistema mediale, in cui si è imposto un racconto dalle tante sfaccettature. Numerosi gli studiosi che si sono interrogati per cercare di approfondire e capire come sia cambiata la società in questi ultimi mesi. Tra questi due donne si sono interrogate, due donne che insieme ad altre 75 persone hanno dato vita a “Pandemie mediali” edito da Aracne.

Interris.it le ha incontrate: loro sono Marica Spalletta, professoressa associata di Sociologia di processi culturali e comunicativi alla Link Campus University, dove insegna Media, Politics and Public Opinion ed è coordinatore scientifico di Link Lab (Laboratorio di Ricerca Sociale) e Vania De Luca, giornalista Rai e Vaticanista di RaiNews 24 e presidente nazionale dell’Ucsi (Unione Cattolica della Stampa Italiana) associazione che da più di sessant’anni si occupa di formazione e di etica del giornalismo e della comunicazione. Mondo universitario e dell’informazione si sono uniti per dare delle letture orizzontali del MediaVirus per offrire anche al lettore non specialistico chiavi di lettura di un presente in cui la contaminazione tra sapere ed esperienze può diventare risorsa per leggere la complessità e rifondare il vivere sociale, continuando a scommettere su un’informazione vera e su notizie certificate.

“Il titolo del libro nasce dall’idea di voler giocare con le parole perché come tutti noi, anche i media sono stati in qualche modo contagiati dal virus. Sicuramente sono stati uno strumento di propagazione del virus perché hanno diffuso le informazioni su questo e quindi sono stati uno strumento di diffusione in positivo – racconta la professoressa Spalletta -. I media ci hanno permesso di stare al passo con la situazione e di capire come si stava evolvendo se pur in un panorama dell’informazione che mai come in questo caso a mio avviso non è stato capace di dettare l’agenda perché c’è stato qualcosa di più forte e comprensivo ad averlo fatto che è stato il virus stesso”.

Qual è stato il valore dei media in questo periodo?
“Il virus ha dimostrato che i media sono un rimedio, ma a patto che siano i media a rimediare loro stessi. Questo significa anche uscire da determinate logiche che hanno portato i media negli ultimi tre decenni a renderli inattaccabili. La lezione dei media virus è duplice “siete importanti, ma a patto che anche voi facciate qualcosa”.

Perché nel libro definisce la dimensione di questa pandemia glocale e non globale?
“La pandemia non ha avuto solo una sfaccettatura globale ma i suoi effetti si sono visti soporattutto a livello locale e delle singole regioni. Pensiamo all’importanza e al ruolo che hanno avuto le regioni nel loro confronto quotidiano con la pandemia tanto da aver visto atteggiamenti diversi e modalità diverse di interazioni con il virus che cambiavano da zona a zona”.

Che valore ha avuto l’immagine in questo periodo?
“Le immagini hanno sempre avuto un grande valore comunicativo perché le cogliamo attraverso gli occhi che forse sono tra quelli più immediati per aiutarci a percepire proprio la realtà -. Sono le parole di Vania De Luca, vaticanista di Rai news -. Per quanto riguarda le immagini della pandemia, abbiamo avuto quelle della morte, degli ospedali con i reparti di rianimazione che ci hanno impressionati”.

Quali immagini l’hanno particolarmente colpita e che secondo lei rimmarranno nel tempo?
“Ricordo in particolare quando arrivarono le immagini dell’esercito che sui camion militari portavano via tutte le bare dalla città di Bergamo e Brescia, lì dove i cimiteri cittadini non riuscivano a dare spazio alle sepolture necessarie. Tante donne venivano rappresentate invece come la cura della vita e ce ne sono state tre che in particolare mi hanno colpita. La prima è l’immagine simbolo dell’infermiera che a fine turno poggia la testa suo suo pc stremata e viene immortalata in questa fase di sfinimento risultando un pò il simbolo della cura. L’altra immagine è sempre quella di un’infermiera che invece aveva postato sui social un autoscatto dove si vedeva la sua immagine riflessa allo specchio e aveva il volto segnato dalla mascherina e stremato dalla stanchezza. L’altra immagine è sempre di un’infermiera rappresentata con guanti e mascherina che teneva in braccio, come a cullarla, l’Italia malata che era diventata ormai completamente zona rossa. In questo caso si trattava di un disegno e non di una foto. Ad ogni modo anche in questo caso si trattava però di un’immagine diventata virale perché anche qui rappresentava la cura per uscire fuori da quel tunnel nel quale ci siamo trovati tutti durante il lockdown”.

Il Papa ha lanciato tanti messaggi in questi mesi, è cambiata anche per la Chiesa il modo di fare comunicazione?
“La Chiesa non è soltanto il Papa e i vertici della Chiesa, ma è quella realtà formata da tutte le parrocchie d’Italia, dalle comunità, i gruppi e le associazioni che hanno dovuto reinventare il modo di comunicare. Diciamo che la Chiesa che ha sempre puntato sulla necessità della presenza e dell’incontro, si è trovata spiazzata nel momento in cui per essere presenti, bisognava essere distanti. La difficoltà di questo momento l’ha vissuta anche il Papa che ha sempre amato abbracciare ed essere vicino alle persone e che per la prima volta si è ritrovato a dover pronunciare anche l’Angelus in streaming. C’è stata però una grandissima attenzione allo svolgimento dei fatti e al mantenere attive le reti comunitarie attraverso le strade possibili, che sono state quelle degli incontri on line e delle celebrazioni tramite i dispositivi”.

Cosa insegna la pandemia ai media?
“Il Covid sta insegnando una fase di sobrietà, una necessità di verità e una necessità anche di selezione delle parole che ci servono per riprendere la vita probabilmente in una forma nuova. La comunicazione è vita, probabilmente perché racconta la vita, perché fatta da persone che coinvolgono altre persone, ma questo periodo non lo vediamo ancora nella sua interezza. Bisogna creare speranza, possibilità di lavoro per i giovani, cura dell’ambiente della nostra casa comune. Io credo che l’informazione del futuro sia quella che si faccia carico della domanda positiva che dalla società emerge e che la racconti, le dia voce e che le nostre parole aiutino a costruire anche il mondo in cui viviamo. Dovremmo quindi imparare tutti a fare questo sforzo per costruire un domani migliore “.