Da Lesbo la voce di don Luca tra i poveri più dimenticati

La testimonianza di don Luca Morigi della Comunità Papa Giovanni XXIII che nei profughi di Lesbo ha incontrato "la presenza di Cristo umiliato davanti a noi"

Un vasto terreno collocato a ridosso della spiaggia, ricoperto con della ghiaia sul quale sono state montate migliaia di tende, ammassate, così vicine le une alle altre che anche uno soffio di vento fatica a farsi strada in mezzo a loro. Niente acqua corrente, niente acqua calda, servizi igienici inesistenti, solo dei bagni chimici situati a delle estremità del terreno. E’ così che si presenta il campo profughi di Kera Tepe, sull’isola di Lesbo, approntato dopo la chiusura del campo di Moria chiuso in seguito a un vasto incendio.

Sono queste le condizioni in cui i migranti presenti sull’isola di Lesbo sono costretti a vivere, cucinando con fornelli a gas all’interno delle tende, perché all’esterno non c’è spazio. Questo aumenta il rischio di nuovi incendi che potrebbero avere conseguenze più che gravi. E’ così che la civile Europa “accoglie” chi fugge da situazioni di povertà, fame, guerre e persecuzioni. Sono loro i nuovi poveri che in questa giornata mondiale della povertà vorremmo ricordare, anche per portare alla luce una situazione di cui troppo poco si parla.

La giornata mondiale dei poveri

Si celebra oggi la quarta Giornata mondiale dei poveri, istituita da Papa Francesco, che ha come tema “Tendi la tua mano al povero”. “Tenere lo sguardo rivolto al povero è difficile, ma quanto mai necessario per imprimere alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione – ha scritto il Pontefice nel messaggio per la IV Giornata mondiale dei poveri -. Non si tratta di spendere tante parole, ma piuttosto di impegnare concretamente la vita, mossi dalla carità divina. Ogni anno, con la Giornata Mondiale dei Poveri, ritorno su questa realtà fondamentale per la vita della Chiesa, perché i poveri sono e saranno sempre con noi (cfr Gv 12,8) per aiutarci ad accogliere la compagnia di Cristo nell’esistenza quotidiana”.

“’Tendi la mano al povero’, dunque, è un invito alla responsabilità come impegno diretto di chiunque si sente partecipe della stessa sorte – prosegue Papa Francesco -. È un incitamento a farsi carico dei pesi dei più deboli, come ricorda San Paolo: ‘Mediante l’amore siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. […] Portate i pesi gli uni degli altri’ (Gal 5,13-14; 6,2). L’Apostolo insegna che la libertà che ci è stata donata con la morte e risurrezione di Gesù Cristo è per ciascuno di noi una responsabilità per mettersi al servizio degli altri, soprattutto dei più deboli. Non si tratta di un’esortazione facoltativa, ma di una condizione dell’autenticità della fede che professiamo”.

“In questo cammino di incontro quotidiano con i poveri ci accompagna la Madre di Dio, che più di ogni altra è la Madre dei poveri. La Vergine Maria conosce da vicino le difficoltà e le sofferenze di quanti sono emarginati, perché lei stessa si è trovata a dare alla luce il Figlio di Dio in una stalla. Per la minaccia di Erode, con Giuseppe suo sposo e il piccolo Gesù è fuggita in un altro paese, e la condizione di profughi ha segnato per alcuni anni la santa Famiglia – ha concluso il suo messaggio il Papa -. Possa la preghiera alla Madre dei poveri accomunare questi suoi figli prediletti e quanti li servono nel nome di Cristo. E la preghiera trasformi la mano tesa in un abbraccio di condivisione e di fraternità ritrovata“.

La testimonianza di don Luca

“Bisogna dire a tutti che quello che si sta compiendo su queste isole greche, in questi centri di prima accoglienza, o meglio campi di detenzione e concentramento, è un velato ma reale genocidio, dove ad essere eliminata non è tanto una o l’altra razza, quanto tutta l’umanità e a pagarne il prezzo sono sempre loro: gli oppressi, i poveri e gli emarginati”. A raccontare a Interris.it della situazione del campo di Kera Tepe, è don Luca Morigi, sacerdote della Comunità Papa Giovanni XXIII, che insieme ad altri volontari, è stato inviato dall’associazione fondata dal Servo di Dio don Oreste Benzi sulle isole greche per un monitoraggio, per comprendere e vedere in prima persona le reali condizioni in cui vivono i migranti.

“Lo scorso 9 settembre il campo di Moria è stato devastato da un grande incendio, questo è avvenuto pochi giorni prima di un lockdown perché erano stati riscontrati alcuni casi di coronavirus – spiega don Luca -. Gli abitanti dell’isola danno la colpa ai migranti, ma dalle indagini risulterebbe un concorso di colpa. Tutte le persone che erano all’interno di questo campo si sono riversate in strada. L’intenzione dell’incendio, sembrerebbe essere stata una provocazione nei confronti dell’Europa. Da questa parte della terra il dolore è estremo, i diritti umani sono completamente calpestati. I migranti si aspettavano di essere caricati su degli autobus e portati in Continente. Ma nel giro di pochissimi giorni è stato messo in piedi il campo di Kera Tepe. C’è stata una grandissima ribellione di tutti i profughi che non volevano trasferirsi. La polizia ha creato uno sbarramento tra la città e i migranti. Nessuno poteva passare per portare loro cibo e generi di prima necessità. Sono stati obbligati a entrare nel campo, sono stati presi per fame. Tutti rimpiangono il campo di Moria”.

Una vera prigione all’aperto

Il governo dell’isola, che è di destra, sostiene che in un paio di anni riuscirà a “liberare” Lesbo dai migranti. “Si tratta di una vera e propria prigione all’aperto dove, ovviamente, non si sta bene – racconta -. Il fatto che manchino gli elementi necessari per una vita dignitosa fa parte di un progetto”.

La chiusura di Pipka

Sull’isola esistevano altri due campi Pipka e Kera Tepe (quest’ultimo ha lo stesso nome del campo più grande, ndr). Pipka era stato allestito in un centro turistico dismesso, c’erano dei bungalow e lì venivano accolte le persone più fragili e malate. “Come realtà era quello che si avvicinava di più al modo di accogliere della Papa Giovanni. Ma è arrivato il decreto di sgombero. All’interno c’erano un’ottantina di persone, c’erano un asilo dove arrivavano anche i bimbi greci. Noi eravamo presenti ed è stata una cosa terribile. Ma anche il secondo Kera Tepe verrà chiuso entro il 31 dicembre. Il progetto è quello di chiudere tutto e di inserire le persone in quello situato in riva al mare. E da qui, l’intenzione, è di espellere tutti verso Atene, tranne coloro che non hanno avuto il riconoscimento per l’asilo politico. Loro dovrebbero restare a Kera Tepe fino a quando non sarà pronto un campo di respingimento che verrà costruito a nord di Atene, in una zona montuosa, per poi essere rimpatriati. Questo perché pensano che il degrado e l’impoverimento dell’isola sia completamente dovuto ai profughi”.

Il problema del coronavirus

Nel grande campo Kera Tepe, a causa dell’ammassamento delle tende, non c’è neanche la possibilità di mantenere il giusto distanziamento sociale per evitare l’eventuale diffondersi del coronavirus. “C’è il distanziamento dalla gente, dalla città, ma all’interno del campo non esiste assolutamente il distanziamento sociale, non c’è il rispetto di nulla. Si parla di almeno 750 casi di Covid, però non è sicuro, forse sono molti meno – spiega don Luca -. Sembra assurdo dirlo, ma al momento, all’interno di Kera Tepe ci sono malattie ben più gravi del Covid“.

La depressione e la disperazione

All’interno del campo sono in aumento i suicidi. “Hanno bisogno di essere ascoltati questi ragazzi, soprattutto quelli che sono soli. Bene o male chi ha una famiglia riesce a mantenere un certo equilibrio. Ma le persone sole sono quelle che non vengono mai considerate, la loro richiesta di asilo viene sempre rimandata, vedono tutti gli altri lasciare il campo. Un ragazzo mi ha detto che preferirebbe passare la vita in carcere perché lì saprebbe quando la sua pena avrebbe un termine”.

Sono in una continua sospensione, non hanno possibilità di esprimersi, non hanno nulla. Piano piano perdono anche la speranza per il futuro – racconta -. Fanno fatica a pensarsi in una prospettiva, la solitudine uccide“.

Un’ingiustizia strutturata

“In questi posti, perché non esiste solo la situazione di Lesbo, ti rendi conto che l’ingiustizia è strutturata e deliberata. C’è la volontà di mantenere in essere questi posti. Sulla pelle dei poveri esiste chi, e sono tanti, guadagna. Sulla vita dei profughi c’è chi lucra. La loro vita è considerata pochissimo – ha detto -. I cittadini dell’isola non sono tutti razzisti, esiste anche una stanchezza di fondo, come avviene un po’ in Italia, che ti porta a non poterne più di queste situazioni”.

“Ci sono anche tanti segni di speranza, cittadini greci che si organizzano per aiutare i migranti. Ci siamo avvicinati ad alcune realtà locali, un’associazione ha messo in rete alcune organizzazioni piccoline che sono in contatto con i migranti e settimanalmente si incontrano e mettono in campo strategie concrete di sostegno per i profughi. Esistono realtà belle di sostegno e accoglienza“.

La vita si ferma a Lesbo

“Quando sono entrato nel campo per me è stato come entrare a contatto con la persona di Gesù Eucaristico, con il sacrificio, e ho trovato Cristo davanti a me. Ho trovato questi poveri che sono veramente coloro che espiano il nostro peccato e vedi questa messa di gente porta ingiustamente il peccato commesso e tollerato da noi – conclude don Luca -. In questi campi c’è davvero la presenza di Cristo umiliato davanti a noi. Sotto i nostri occhi si consuma un’ingiustizia davanti alla quale siamo impotenti. Ma se non gridiamo noi che siamo qua anche per poco tempo, chi lo farà?“.