“L’emergenza coronavirus svela la disumanità del carcere”

Intervista di Interris.it a Giorgio Pieri, coordinatore del progetto “Cec” attraverso il quale la Comunità Papa Giovanni XXIII si occupa dei detenuti. "Negli istituti manca la comunicazione interna"

Carceri
Caos nelle carceri - Foto © Ansa

“In carcere, come in tutti i settori, l’attuale emergenza sanitaria mette in evidenza quello che c’è di bello e di brutto nelle nostre realtà”, spiega a Interris.it Giorgio Pieri, coordinatore della “Cec”, la comunità educante con i carcerati, un progetto della Papa Giovanni XXIII ispirato al modello realizzato fin dagli anni Settanta dall’Apac (Associazione per la Protezione e Assistenza ai condannati), il carcere a bassa presenza di guardie che in Brasile ha fatto scendere la recidiva dall’80% al 15%. La “Cec” prevede l’accoglienza di detenuti (imputati e condannati in via definitiva) per qualsiasi reato e di ogni età e nazionalità in strutture dedicate, ossia in comunità di soli detenuti.  “Abbiamo 8 strutture in Italia, 2 in Camerun e una è in aperura in Togo– precisa Pieri-. 290 detenuti ed ex detenuti comuni seguono un percorso educativo personalizzato. 40 carceri sono visitate ogni settimana dai nostri operatori, per offrire sostegno morale ai detenuti, in particolare quelli che espiano pene lunghe. Solo l’8% di coloro che portano a termine il nostro programma di recupero torna a delinquere a fronte di una media nazionale del 70%”.

La rivolta nel carcere di Poggioreale

Perché ritiene che l’epidemia di Covid-19 riveli il positivo e il negativo di ogni settore?

“Lo vediamo ovunque. Negli ospedali, per esempio, stiamo vedendo gli effetti prodotti da anni di tagli alla sanità. Parimenti l’emergenza sanitaria pone in evidenza quanto il carcere sia un ambiente disumano e come persista la mentalità del chiudere dentro le persone e buttare via la chiave. Ovviamente non è una situazione generalizzata. Varia molto a seconda degli istituti”.

Le rivolte carcerarie sono state esplosioni improvvise di rabbia?

“Andava gestita diversamente la comunicazione interna. Tengo a precisare che gli agenti della polizia penitenziaria, gli educatori e il comparto direttivo degli istituti svolgono un lavoro immane. Sono spesso degli eroi e tra loro ci sono persone che danno la vita per migliorare la situazione, ma è in sé il carcere ad essere disumano e questa disumanità emerge in tutta la sua drammaticità in questo momento di crisi e di paura per l’epidemia di coronavirus”.

Quali effetti produce dietro le sbarre questa situazione emergenziale ?

“In un ambiente complesso come il carcere la paura è oggettivamente difficile da gestire. In più sono stati commessi gravi errori di comunicazione. Hanno detto ai detenuti che fino al 31 maggio erano interrotti i colloqui con i familiari e la possibilità di fare permessi premio, mentre per le scuole la chiusura è fino al 3 aprile. E’ comprensibile il provvedimento, ma andava spiegato meglio all’interno. Si vuole proteggere l’istituto dai detenuti che escono e poi tornando dentro possono portare il contagio in carcere. E lo stesso discorso vale per i colloqui. Misure giuste per proteggere l’istituto ma perché sfalsare le date rispetto alla comunità esterna? Perché proibire colloqui e permessi premio fino al 31 maggio e non fino al 3 aprile come stabilito per tutte le attività pubbliche al di fuori del carcere?”.

Cosa bisognava tenere presente?

“Non si è tenuto sufficientemente conto che per un detenuto, cioè per una persona che vive in una condizione di isolamento, il colloquio settimanale è ciò che gli consente di vivere gli altri giorni della settimana in pace. Si poteva gestire la situazione in altri modi. Per esempio, mantenere i colloqui con i familiari adottando delle protezioni anti-contagio, oppure si potevano aumentare le telefonate dei detenuti ai familiari o garantire colloqui via Skype. Dire “colloqui cancellati” e basta è stato un errore”.

Cosa insegna dell’universo carcerario questa situazione di allarme generale?

“Il sistema carcere si basa ancora molto sulla sicurezza e poco sull’educazione. Dentro diventa lecito dire dei no senza tenere conto delle conseguenze e senza neppure dare spiegazioni sommarie. Se un detenuto fa una domanda all’istituto riceve risposte spesso prive di spiegazioni. Gli si dice che è per ragioni di sicurezza. E ciò concorre a rendere disumano il carcere. Poi certo va anche detto che negli istituti, in situazioni di cattività, escono fuori le parti più brutte dell’uomo che finisce per comportarsi da bestia. Ed è doveroso tenere anche conto della comprensibile paura della polizia penitenziaria di fronte a comportamenti brutali e reazioni autenticamente bestiali”.