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Le incognite del voto e la vera sfida fra Trump e Biden

Il dossier cinese, il dissenso per il caso Floyd, il coronavirus: le variabili impazzite nel rush finale verso il voto. E i repubblicani frenano sul consenso a Trump

Negli Stati Uniti si vota. Forse non si sa ancora il come, vista la situazione sanitaria (e ora anche sociale), ma di sicuro si sa il quando: novembre 2020, il 3 per la precisione. Difficile, in questo contesto, pensare che il voto americano sia lo stesso di quattro anni fa. E non tanto per la sfida elettorale, anche se la comune appartenenza politica fra Joe Biden e Hillary Clinton non garantisce poi chissà quali nessi fra i due (se si esclude il breve periodo da, rispettivamente, vicepresidente e segretario di Stato di Obama) quanto in relazioni alle variabili che, con un clamore quasi più mediatico che politico, potrebbero influire sul voto degli americani. I quattro anni della presidenza Trump sono stati intensi, controversi quanto si vuole, ma è innegabile che un’impronta, nel bene e nel male, la sua amministrazione l’ha lasciata negli Stati Uniti del Duemilaventi. Forse più in politica estera che interna ma, nonostante il caos che attraversa il Paese intero, fra coronavirus e proteste per la morte di George Floyd, un minimo di dibattito politico c’è. Forse non quello delle primarie democratiche di qualche mese fa, quasi più d’appeal delle elezioni stesse, ma l’operato del Tycoon, tra tweet e gesti eclatanti, alimenta la discussione di per sé.

Trump e Biden

Un concetto valido ora, come lo è stato fin dal 2016, quando vinse abbastanza a sorpresa le elezioni. Corea del Nord, Iran, botta e risposta prima aspro poi conciliatorio con Kim Jong-un, aspro e basta con Teheran, gli ultimi mesi di presidenza Trump hanno visto aperti praticamente tutti i dossier esteri, anche se la palma di caso più spinoso se l’è aggiudicata il rapporto fra Washington e Pechino. E non tanto per il caso Hong Kong o per la battaglia commerciale andata avanti per mesi, quando per quel clima di rinnovata guerra fredda che, però, rispetto ai tempi della cortina di ferro ha assunto significati decisamente diversi. In qualche modo meno intensi sul piano degli episodi, di sicuro dai toni più alti ma proporzionati ai tempi odierni: grandi proclami ma, il più delle volte, poco incisvi sul piano geopolitico. Inevitabile, però, chiedersi se i grandi dossier aperti durante i quattro anni di presidenza Trump possano in qualche modo incidere sul gradimento dell’elettorato. Un discorso in realtà più da media che da dibattito di popolo, per il quale probabilmente gli effetti della pandemia saranno tematiche molto più prossime di una sfida geopolitica con un Paese rivale.

Il dossier cinese

“Una vicenda come quella di Hong Kong – ha spiegato a Interris.it Gregory Alegi, storico e docente nel Dipartimento di Scienze Politiche di Storia delle Americhe della Luiss – di per sé non rappresenta un elemento decisivo ai fini elettorali. Se dovesse diventare una sfida più aperta con la Cina potrebbe essere diverso. E’ già accaduto in passato, quando Mao vinse la rivoluzione, che ci fu un grande dibattito politico sulla responsabilità di aver perduto la Cina. Questo influì abbastanza sugli equilibri politici americani ma si trattava di una sconfitta di dimensioni epiche. Per ora non sembra essere quello lo scenario”. Un discorso altrettanto valido sul piano della sfida commerciale con Pechino, intensa ma lontana, forse, dalla sfera di interesse dell’elettorato medio, più attento su temi come quello dell’immigrazione o, oggi più che mai, della disoccupazione: “Nelle elezioni raramente ci sono cose così sofisticate. Se fossimo rimasti in una situazione di altissima occupazione, della sfida con la Cina non ne staremmo nemmeno parlando. Ora che invece ci troviamo sotto l’effetto del coronavirus e con una disoccupazione a livelli record, conterà di più. Il problema ora non è più l’ipotetica fuga di lavoro verso l’Oriente o la concorrenza sleale, tutti temi che hanno animato il dibattito negli ultimi anni. Il problema è un crollo dovuto soprattutto a fattori interni. Si può immaginare che Trump tenti un recupero di immagine esasperando il conflitto con la Cina per rinnovare la sua caratura di leader forte, alla quale tiene molto. Però che sia un elemento decisivo nella sfida elettorale ci credo poco”.

Tensioni razziali

Diverso, ma solo in parte, il discorso relativo all’ondata di proteste che sta attraversando gli Stati Uniti. La morte di George Floyd ha riaperto uno spaccato sulle istanze delle comunità afroamericane che, però, stavolta ha raggiunto livelli decisamente più alti che in passato, magari proprio per la combinazione ai deleteri effetti dell’emergenza sanitaria: “Purtroppo non è un fenomeno nuovo – ha spiegato ancora Alegi -. Tensioni razziali sfociate in manifestazioni ampie e violente non sono nuove. Così come gli episodi di violenza da parte della Polizia. Il problema credo che sia da ricercarsi nello smascheramento di certi comportamenti. Negli ultimi giorni, l’apparato della sicurezza nazionale ha preso le distanze da Trump. Prima il segretario delle Difesa, poi il suo predecessore, Mattis, l’ex capo di gabinetto Kelly… Hanno tutti preso posizioni molto forti sul fatto che non si possa invocare una legge addirittura del 1807, passata per tutt’altro problema, per schierare l’esercito contro la popolazione americana, come Trump sembrava voler fare, spostando già 600 paracadutisti da Fort Bragg ai sobborghi di Washington. Questa risposta da Paese autoritario, se non totalitario, ha spaventato molto l’apparato del governo, i militari, che non vogliono essere utilizzati contro la popolazione. Questo poteva essere un fattore decisivo, perché i militari sono tradizionalmente un elettorato repubblicano e rappresentano un grande numero di persone”.

Variabili in gioco

Va da sé che, pur in misure diverse fra loro, tali variabili possano contribuire a sviluppare tendenze e stimolare in modi difformi gli indici di gradimento. Magari non per la tematica in sé, quando per i gesti, le dichiarazioni e le prese di posizione del presidente, in questo senso sempre piuttosto eclatanti: “Rimane, ad esempio, l’incognita della dimensione religiosa. Se le passeggiate per farsi foto davanti a una chiesa o a una statua di Giovanni Paolo II portino voti o siano talmente assurde da allontanare il voto religioso, che rimane lo zoccolo duro del sostegno di Trump, localizzato peraltro in Stati con forte caratterizzazione razzista”. Un’occasione per tracciare qualche scenario elettorale, pur restando tutto sul piano delle ipotesi: “Che gli afroamericani non abbiano in simpatia Trump non è una novità, è un elettorato che non gli ha mai dato fiducia. L’episodio drammatico di George Floyd non sposta molto gli equilibri ma bisognerà capire se questa situazione eroderà la base di sostegno di Trump, soprattutto laddove la sua maggioranza non è garantita. L’attuale presidente si potrebbe permettere di perdere, negli Stati dove ha stravinto, complessivamente diversi milioni di voti e vincere. Bisognerà invece vedere negli Stati contendibili, come la Pennsylvania, che fu vinta per 50 mila voti, il Texas o l’Arizona, se questi comportamenti eroderanno quel tanto di voti che basta a ribaltarli”.

La sfida del voto

Resta il fatto che, variabili o no, la sfida fra Trump e Biden si giocherà su più fronti. Come sempre è stato nel rush finale fra i candidati, certo, ma forse, oggi più che in passato, la quotidianità delle giornate americane scandisce il dibattito politico più dei palchi elettorali. Immagine e fiducia si giocano sul filo del contrasto alle emergenze e questo, a pochi mesi dal voto, rende la sfida elettorale più complessa di una battaglia a colpi di slogan durante un comizio all’americana: “Noi le percepiamo come elezioni uniche ma in realtà sono 50 diverse. Ci rendiamo poco conto di questo dalla prospettiva europea. Stravincere a New York e in California, porta tanti voti ma non la vittoria. Continuare a ragionare come fosse un’elezione unica regionale è fuorviante. Sono 50 elezioni in cinquanta posti con cinquanta problematiche diverse”. E tutte da tenere in debito conto. Anche perché, caos sociale o no, qualche endorsement comincia ad arrivare e sembra che Trump dovrà guardarsi anche in casa per capire l’aria che tira. Colin Powell ad esempio, segretario di Stato di George W. Bush, dopo l’appoggio dato alla Clinton nel 2016 ammette alla Cnn che non appoggerà il presidente nemmeno stavolta. Con tanto di invito agli americani: “Riflettete, fate appello al vostro buon senso, chiedetevi, ‘E’ un bene per il mio Paese?'”. Stesso discorso anche per l’ex inquilino della Casa Bianca e per Mitt Romney. E c’è da scommettere che qualche vecchio componente dello scacchiere Trump farà lo stesso (Paul Ryan in testa). Tutto starà nel capire quanto elettorato riusciranno a tirarsi dietro.

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