Janiri: “La paura di fronte al mondo esterno può portare al ritiro in sé stessi”

L’intervista di Interris.it allo psichiatra ed esperto di dipendenze e disturbi dell’ansia e dell’umore del Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma Luigi Janiri

Foto di Kris K da Pixabay

Li conosciamo con un termine giapponese, hikikomori. Sono quei giovani e giovanissimi che a un certo punto restringono il mondo alla loro stanza. La porta della camera come le Colonne d’Ercole, il topos della letteratura classica, e lo schermo del computer come porta d’accesso virtuale alla realtà, dove il contatto fisico con l’altra persona viene sostituito dall’interazione digitale. Tagliano i ponti tangibili ma non spezzano le corde immateriali.

Giovani e ritiro sociale

Quanti sono, nel nostro Paese, i giovani che si isolano? Quali sono le loro caratteristiche? Perché lo fanno? Come reagiscono i loro adulti di riferimento, di fronte al ritiro sociale? Risposte a queste domande si trovano nella prima indagine nazionale che fornisce una stima quantitativa del numero degli adolescenti in isolamento volontario – la tendenza a smettere di uscire di casa, di frequentare la scuola e gli amici, di rifugiarsi nella propria camera avendo come unico canale di comunicazione con l’esterno Internet. Si tratta di “Vite in disparte”, lo studio condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ifc) e promosso dal Gruppo Abele in collaborazione con l’Università della Strada. A un campione di 12mila studenti delle scuole superiori è stato sottoposto un questionario relativo al ritiro sociale e dai risultati, che si basano sull’autovalutazione dei partecipanti stessi, è emerso che il 2,1% si attribuisce la definizione di hikikomori. “Proiettando il dato sulla popolazione studentesca 15-19enne a livello nazionale, si può quindi stimare che circa 54mila studenti italiani di scuola superiore si identifichino in una situazione di ritiro sociale”, afferma la ricercatrice Cnr-Ifc Sabrina Molinaro, “le proiezioni ci parlano di circa l’1,7% degli studenti totali (44mila ragazzi a livello nazionale) che si possono definire hikikomori, mentre il 2,6% (67mila) sarebbero a rischio grave di diventarlo”. C’è il 9,4%, tra coloro che si sarebbero voluti isolare, senza poi farlo effettivamente, che nel questionario ha dichiarato di non lasciare mai la propria stanza se non per recarsi a scuola. Lo studio rileva inoltre come l’età che sarebbe maggiormente a rischio per la scelta dell’isolamento sociale è quella tra i 15 i 17 anni e che il fenomeno del ritiro effettivo riguardi in maggioranza i ragazzi rispetto alle ragazze, con quest’ultime maggiormente disposte ad attribuirsi la definizione di hikikomori. Dalle risposte degli studenti emerge anche quella che ai loro occhi è una certa incomprensione del problema da parte degli adulti di riferimento, a casa come in classe. Uno su quattro (26%) degli studenti che si sono isolati ha affermato infatti che i genitori hanno accettato la cosa apparentemente senza porsi domande, mentre uno su cinque (19,2%) che i genitori non si sarebbero accorti del periodo di isolamento.

L’intervista

Interris.it ha interpellato lo psichiatra ed esperto di dipendenze e disturbi dell’ansia e dell’umore del Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma Luigi Janiri, per un commento sui risultati dello studio “Vite in disparte”.

Come commenta i numeri dello studio condotto dal Cnr?

“Rispetto alla sindrome di hikikomori completa riscontrata in Giappone, con i ragazzi chiusi nella loro camera senza altri collegamenti con l’esterno se non tramite Internet, che conducono la loro quotidianità nella loro stanza, in Italia c’è una situazione ‘grigia’. Esistono forme di dipendenza che portano a una comunicazione che avviene esclusivamente tramite un mezzo, con la perdita dei contatti fisici. Ci sono anche soggetti più a rischio, come le personalità schizoidi. Queste ultime non hanno rapporti con l’esterno perché non hanno interesse ad incontrare le persone, per loro la Rete rappresenta quindi una forma di pseudo-relazione”.

Cosa porta questi giovani e giovanissimi a chiudersi e a isolarsi nella propria stanza?

“Le possibilità sono il disinteresse nelle relazioni, una sorta di fobia sociale generalizzata e magari le pressioni sociali. Nelle personalità premorbose, quelle che sono a rischio di sviluppare un disturbo, il loro ritiro sociale è dovuto all’anedonia sociale, cioè l’incapacità di provare interesse e piacere nelle relazioni sociali. Ci possono essere poi altre situazioni in cui prevale la paura del mondo esterno, percepito come sempre più complesso e ostile, e allora restare in camera è una reazione difensiva, un ritiro in sé stessi. Un ulteriore fattore, scatenante o quantomeno concorrente, può essere la notevole comunicazione oggi di performance sempre molto alte, di confronti sempre più serrati e difficili da sostenere, di modelli sproporzionati rispetto a quella che viene vissuta come la propria efficacia nel corrispondervi”.

Come gli hikikomori italiani trascorrono il loro tempo?
“Svolgono tutte le loro attività completamente chiusi nelle loro stanze, con i soli collegamenti con l’esterno rappresentati da Internet e dai genitori che per esempio gli passano il cibo, e tendono a essere mediamente attivi. Il computer, nelle varie modalità d’uso, assorbe ore del loro tempo perché Internet è la porta verso tante cose, dalle interazioni sociali alle dipendenze. Molti si dedicano ai giochi di ruolo, al gaming oline e alla ricerca di informazioni che può sfociare nell’information overload addiction, la ricerca ossessivo-compulsiva di informazioni che li porta a un sovraccarico cognitivo”.

Dall’indagine emerge che il 26% dei ritirati afferma che propri genitori hanno accettato la cosa senza porsi domande. Come si può spiegare questo comportamento?

“Esistono situazioni in cui c’è anche un disagio familiare spesso caratterizzato da scarse dimostrazioni di affetto e di interesse da parte dei genitori. Per esempio, quando gli adulti sono troppo presi dalle loro cose, come il lavoro. Oppure i genitori creano una sorta di distacco rispetto al problema, come forma di difesa a loro volta”.

Come si può costruire un ponte tra il loro rifugio e la realtà esterna?

“Dopo l’esperienza della pandemia, la scuola ha fatto molti sforzi, anche se a macchia di leopardo, per mantenere la didattica a distanza per raggiungere sia questi ragazzi che quelli che hanno smesso di frequentare per altri motivi. Serve poi plasmare una cultura dell’assistenza psicologia e psichiatrica a domicilio, cosa prevista dalla riforma psichiatrica ma che si fa ancora troppo poco. Il problema per questi ragazzi è l’incontro de visu, fisico, con le persone, perché o lo temono o non gli interessa. Per curarli servirebbe invece vederli di persona, come anche stimolare i compagni di classe ad andarli a trovare per mantenere un collegamento sociale. La cura per chi vive solo la relazione virtuale è l’incontro reale”.