Come sta l’Italia dopo la pandemia, la visione del Forum Disuguaglianze

Andrea Morniroli, coordinatore del Forum Disuguaglianze e diversità, ci racconta come il Covid ha acuito problemi sociali già esistenti e traccia la possibile strategia di uscita

Sebbene la campagna vaccinale abbia portato i suoi frutti, con la diminuzione della pressione sugli ospedali, l’Italia versa ancora in una condizione di emergenza sanitaria.

La situazione ha stravolto molte cose nel nostro Paese: stili di vita, consumi, mondo del lavoro. Con risultati difficili su molti fronti, tra cui quello delle disuguaglianze sociali.

A proposito di questo, parliamo con Andrea Morniroli, socio e amministratore della cooperativa sociale Dedalus di Napoli e coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità.

Dott. Morniroli, in base alla vostra osservazione che cosa è cambiato sul piano sociale in Italia con la pandemia?

Va subito detto che ha solo amplificato quello che già c’era. Lo ha reso evidente e contemporaneamente lo ha addensato e allargato. Ci ha costretto alla consapevolezza di quello che già prima non andava.

Così è stato pre le disuguaglianze che già prima della crisi erano dure e che non sono il prezzo inevitabile da pagare alla sviluppo, come sostengono molti, ma conseguenza di tre principali fattori: il sistematico smantellamento dei diritti e delle tutele del lavoro (la perdita di potere del lavoro); un’inversione a U delle politiche pubbliche, che da tempo hanno disinvestito sulle politiche di welfare per arginare l’impoverimento; il cambiamento del senso comune, dove il problema non è più stato la povertà ma come trattare i poveri. Trovo a questo proposito inaccettabile l’attuale dibattito sul reddito di emergenza: è passata l’idea che chi è povero lo è per colpa sua e questa è un’accezione ormai presente anche nelle sinistre, che sembrano aver dimenticato che ‘la povertà non è mai condizione volontaria’”.

Crisi

La sua realtà è quella di una città complessa come Napoli, qual’è la vostra esperienza sul territorio?

A Napoli, città che continua a essere epicentro della povertà, i processi di indurimento e allargamento delle fragilità e delle disuguaglianze si sono presentati in tutta la loro asprezza. Basti dire che a luglio i servizi sociali di due quartieri in periferia a Napoli hanno segnalato all’assessorato alla scuola che le inadempienze (ossia le assenze ingiustificate degli alunni) erano aumentate del 70%. E che in quel 70 per cento quasi nel 50% dei casi si trattava di su trattava di La cosa impressionante è dentro questa cifra quasi il 60% delle segnalazioni era relativo a famiglie non conosciute ai servizi. Cioè percorsi scolastici che prima della crisi riuscivano a non cadere in  percorsi di dispersione che non segnalavano mai. Nuove famiglie che la povertà ha schiacciato verso il basso. Anche le prove Invalsi di quest’anno sul Sud hanno dichiarato dati impressionanti sulle competenze dei ragazzi. Ma già prima della crisi legata alla pandemia uno dei principali problemi della scuola italiana era quello dei ragazzi e  delle ragazze che perde. Fenomeno ancora più grave perché a perdersi sono nella stragrande maggioranza dei casi le alunne gli alunni più fragili: sono il problema della scuola italiana erano il ragazzi cosiddetti persi. Che spesso sono i figli e le figlie dei poveri dei poveri; i ragazzi e le ragazze con background migratorio o di recente arrivo, o quelli con diversa abilità.

Altro esempio, la mia cooperativa, la Dedalus, una delle 8 organizzazioni di cittadinanza attiva che hanno dato vita al ForumDD, lavora a Napoli in un quartiere complicato, quello di Porta Capuana vicino alla stazione. Lavoriamo sia con italiani, sia con persone migranti. In molte di queste famiglie, dopo una sola settimana di lockdown non c’era più nessun reddito, perché i lavori erano  spesso in nero, precari, privi di qualsiasi forma di ammortizzazione sociale. Così l’ansia di arrivare a fine mese si è trasformata in ansia di arrivare a fine giornata, mettendo in secondo pian ogni bisogno immateriale, compresa la cura dei percorsi scolastici dei figli e delle figlie. Più in generale, in Italia, le lavoratrici e i lavoratori che sono stati privi di tutele erano circa 6.500.000. Per questo il Forum, insieme a AsviS, in quel periodo ha proposto al Governo e ottenuto il REM (reddito di emergenza)”.

Con la pandemia si è acuita ulteriormente la differenza tra pubblico e privato?

“Facciamo l’esempio delle RSA: c’è stato un momento in cui il Paese ha avuto la percezione che le politiche di smantellamento di welfare e della sanità pubblica avevano provocato un danno dal punto di vista sociale ma anche economico. Prima della pandemia si diceva che il privato è bello e pubblico è brutto. Mi pare che sia stato dimostrato il contrario, dato che la sanità pubblica, nonostante tutto, ha comunque retto.

Altro fatto grave: l’Italia è l’unico Paese in cui dal 2008 ad oggi si è disinvestito nell’educazione”.

Come si può uscire da questa situazione e camminare verso l’appianamento delle disuguaglianze?

“Oggi per rispondere alla situazione bisogna invertire le cose, non ci si può accontentare della normalità di prima, che rischia solo di aumentare le disuguaglianze che poi spingono verso le forme politiche totalitarie.

Da parte di alcune forze politiche c’è il tentativo di portare il consenso sociale con la paura.

Basti vedere come si distribuisce il voto in questo Paese: le periferie vanno verso forme autoritarie, che non sono per l’accoglienza.

Una delle disuguaglianze che rendono tutto più ingiusto e provocano rancore è quella del riconoscimento. Molte classi hanno la percezione che la politica non le consideri più. Non trovano nessuno che li garantisca. Ecco perché invocano un uomo che decida.

Vanno ripristinate politiche pubbliche gestite anche in maniera integrata che vadano di nuovo nei territori e riconoscano interessi comuni.

Chi si pone il tema delle disuguaglianze usa delle parole difficili.

Dobbiamo essere consapevoli di queste parole difficili facendo comprendere che le politiche fatte per i margini della società sono utili anche per il centro e per tutti.

Fare welfare significa spendere meglio, bene e meno di quello che costa poi la cura.

Un ragazzo adolescente della periferie se frequenta un centro giovanile costa ¼ di quanto poi costerà gestirlo con il sistema penale.

La soluzione è quella di portare l’idea di cura nelle comunità: questa è la chiave di volta. Ad esempio la cura dell’anziano, del disabile non sono state più pubbliche o collettive, queste persone sono state tolte dalla comunità, oppure la loro gestione è diventata profitto.

Va rimessa la cura al centro delle comunità perché così si contrastano le disuguaglianze.

Vanno ripristinate forme di tutela del lavoro: contratto sul precariato, salario sociale garantito, uscire dalla confusione che il reddito di cittadinanza è una politica attiva del lavoro. E’ una forma di sostegno economico per chi è troppo dispari per accedere al lavoro. E’ importante orientare in modo democratico il cambiamento tecnologico e favorire un più equo trasferimento generazionale. Occorre mettere mano a una seria riforma fiscale che riduca in modo drastico l’evasione che continua a essere il vero buco nero che ingoia risorse altrimenti utilizzabili per il benessere collettivo.

Sembra che qualcosa si stia muovendo in Europa, con il Next Generation EU: auspichiamo che l’Italia abbia un trattamento migliore rispetto a quello di qualche anno fa riservato alla Grecia”.