Giornata internazionale migranti: le storie di chi vive in Italia

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Nel 2000 le Nazioni Unite hanno proclamato il 18 Dicembre Giornata internazionale del migrante. E’ la data dell’adozione della Convenzione per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

La Convenzione per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie vede la luce il 18 dicembre del 1990 ed entra in vigore nel 2003 grazie alla ratifica del Guatemala che consente di raggiungere il numero minimo (20) di ratifiche previsto. Nonostante l’intensa attività dei Paesi interessati alla Convenzione, della società civile e delle Nazioni Unite, oggi la Convenzione conta solo 42 ratifiche di Paesi perlopiù originari dei flussi migratori.

Chi sono i migranti? Per migrante si intende una persona che lascia il proprio Paese d’origine e si trasferisce a vivere in un’altra Nazione per migliorare la propria condizione di vita. Le motivazioni che spingono una persona a cambiare sono tante. La principale è quella economica: il migrante economico si sposta per trovare un lavoro retribuito e quindi aiutare la propria famiglia.

Esistono tante altre motivazioni: studio, problemi familiari, tratta e sfruttamento, necessità di cure specialistiche, guerre, povertà; recentemente, si è aggiunta anche la categoria del “migrante climatico”, vale a dire quella persona costretta a lasciare la propria casa a seguito di un disastro naturale.

Interris.it ha intervistato alcuni migranti che vivono da tempo in Italia e sono giunti qui per i motivi più diversi. Sono lo specchio della moltitudine di persone straniere che si sono integrate nel nostro tessuto sociale per lavoro o che vivono momentaneamente qui per necessità contingenti.

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Irina: dall’Ucraina con due figli per scappare dalla guerra

Alex e Yuri sono due bambini di 10 e 12 anni scappati in fretta e furia da Kiev con la loro mamma, Irina, dopo l’invasione russa in Ucraina. Dopo giorni di viaggio, sono giunti in Italia e la Prefettura li ha indirizzati in una città delle Marche dove seguono la scuola e le attività sportive insieme ai ragazzi della loro età, lontani dalle bombe.

“Noi veniamo da un paese vicino Kiev, da una zona che ha subito dei bombardamenti – racconta Irina a Interris.it -. Poco dopo l’invasione russa, io e mio marito abbiamo deciso di dividerci: lui è stato chiamato al fronte a combattere, io e i nostri due bambini abbiamo deciso di scappare per salvare le loro vite. Dopo molti giorni nei centri di smistamento al confine con l’Ucraina, siamo arrivati in Italia. Io ero già stata in Italia negli anni scorsi per motivi di lavoro perciò speravo di tornare qui, dove sapevo che c’erano persone molto accoglienti ed amichevoli. La Prefettura ci ha indirizzati, insieme ad altre mamme con i figli, in una struttura dell’anconetano. Il primo giorno di scuola i nuovi compagni di classe dei miei figli li hanno accolti con un lungo applauso e uno striscione che diceva ‘benvenuti’ e ‘pace’. Loro sono stati felicissimi. Dal primo momento in Italia siamo stati aiutati in tutto: la casa, i vestiti, il cibo, gli spostamenti, le visite mediche, la scuola per me e per i bambini, i giochi, i libri e lo sport”.

“Non vedevano l’ora di ricominciare e tornare quanto prima possibile alla normalità. Mio figlio minore non ha parlato per giorni, una volta scappati dall’Ucraina. Tutti i loro compagni di classe sono scappati e ora si trovano chi in Romania, chi in Polonia, chi in Moldavia. Ai miei figli gli amici mancano molto. Sono inoltre molto preoccupati per il padre, per i nonni e per lo zio e i cuginetti che sono rimasti a Dnipro, città pesantemente bombardata. Spero tanto che la guerra finisca il prima possibile e si possa tornare alla normalità. Per loro fare sport significa poter esprimere in modo corretto e controllato anche la rabbia che questa guerra ha generato in loro”.

“Era nostro diritto rimanere a vivere nelle nostre case in pace senza dover scappare in un Paese straniero. Ma ormai la normalità non esiste più e la guerra sembra non voler finire. Spero di trovare un lavoro qui in Italia – sono un avvocato – il prima possibile. E per i miei figli spero che questa diventi un’opportunità di crescita: non solo nell’imparare una nuova lingua, ma anche e soprattutto per confrontarsi e crescere insieme ad altri bambini diversi da quelli che conoscevano. In un clima di pace!”.

Don Jean Baptiste Nsekanaband: dal Ruanda per studiare Teologia

“Mi chiamo Jean Baptiste Nsekanaband. Sono un sacerdote cattolico del Ruanda, piccola Nazione dell’Africa centro-orientale incastonata tra Congo, Uganda, Tanzania e Burundi. Ho 41 anni e la mia città di origine è Nyamagabe, nel Sud del Paese. Sono arrivato a Roma per motivi di studio nell’estate del 2019. In Ruanda ho studiato teologia. Mi sono trasferito a Roma, come molti sacerdoti che arrivano dall’estero in Italia, per approfondire la mia materia di studio. Ho preso la licenza in ‘teologia missionaria’ alla facoltà di Missiologia dell’Università Urbaniana. Ora sto completando nella medesima materia il dottorato e al contempo sono vice parroco presso una parrocchia locale. Ho vissuto quindi alcuni anni a Roma e da diversi mesi sono nelle Marche. A Roma vivevo in un istituto dove c’erano sacerdoti provenienti da ogni continente: Asia, Africa, Sud America… erano tutti lì per motivi di studio. Mi sono trovato subito bene con gli italiani, gente molto aperta e socievole. La cosa più difficile per me è stata imparare la lingua e… il caldo! Sembra incredibile poiché provengo dall’Africa, ma Roma in estate è una città caldissima. In Ruanda il clima è mite e non si superano mai i 30 grandi. A confronto, la Capitale sembrava un forno e non ero preparato. Perciò ho avuto anche qualche problema di salute legato alle alte temperature. Adesso vivo in un paese in provincia di Ancona dove, al contrario, fa decisamente freddo. Ma a parte il clima, in Italia sto bene e mi sento accolto dai parrocchiani così come dai miei professori dell’università e dagli altri sacerdoti della diocesi”.

Veronica, dalla Romania per sfuggire al racket

“Mi chiamo Veronica e ho 20 anni. Vengo da un paesino della Romania, non lontanissimo dalla capitale, Bucarest. Vivevo in campagna con la mia famiglia: mio padre che ha problemi di alcool ed è disoccupato, mia madre (che lavora solo alcune mattine per pulire le strade), mia nonna malata, una sorella e un fratellino minore. Quest’ultimo con problemi cognitivi. Poiché mio padre lavorava solo raramente, eravamo poverissimi. Per questo io, che studiavo in una scuola professionale per diventare sarta, ho accettato l’invito di una coppia amica di famiglia”.

“Mi avevano detto che sarei andata a vivere in una famiglia per fare la baby sitter. Mi sembrava un sogno: lasciavo la miseria della mia casa e allo stesso potevo essere di aiuto ai miei familiari mandando dei soldi. Ma la realtà si è presto trasformata in un incubo. I due ‘amici di famiglia’ mi hanno portata in una città lontana e mi hanno abbandonata – dietro lauto compenso – in mano alla criminalità organizzata. Loro mi hanno picchiata e chiusa in un appartamento dove sono stata costretta con la forza a prostituirmi giorno e notte. Non c’erano pause per me: ero ancora minorenne, perciò valevo molto ed ero una ‘merce pregiata’ per i clienti del sesso. Sono stata salvata dalla polizia che ha fatto irruzione nell’appartamento. Sono stata accompagnata in Italia in una struttura di accoglienza per vittime della tratta dopo aver denunciato gli sfruttatori perché avevo paura che volessero vendicarsi”.

“E’ questo il motivo per cui tante ragazze, sfruttate sulle strade italiane, non denunciano i loro aguzzini: temono una ritorsione contro se stesse o la loro famiglia. In Italia sono stata aiutata e, col tempo e l’amore, ho rimarginato le ferite di quei mesi terribili. Nel frattempo, ho studiato italiano, ho imparato un mestiere e adesso lavoro in un ristorante. Mando regolarmente soldi alla mia famiglia, per aiutare mia nonna e il mio fratellino. In Italia mi sono sentita sempre protetta; non mi sono mai sentita sola o abbandonata. Per me migrare è stato necessario per tutelarmi e poter costruire una vita lontana dalla criminalità”.

Liam, a 5 anni dal Burundi per curare la sordità

“Sono venuta in Italia in cerca di un miracolo: far recuperare l’udito a mio figlio, Liam”. Lo racconta Modeste, la mamma di Liam, un bambino che oggi ha 8 anni ed è originario del Burundi, piccolo Stato dell’Africa Centro Orientale della regione dei Grandi Laghi. Liam è completamente sordo da entrambe le orecchie dalla nascita: è affetto infatti da ipoacusia profonda bilaterale.

“Purtroppo in Burundi non c’erano medici e strutture in grado di aiutare mio figlio. La sordità infantile può provocare la mancata acquisizione del linguaggio. Infatti Liam non parlava: usava solo dei segni per comunicare in forma basilare. L’unica mia speranza era un viaggio in Italia nel centro di eccellenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. Lo conoscevo perché un mio parente vive da anni in Italia. E l’ospedale accoglie anche bambini dall’estero – compreso dal Burundi – che non possono curarsi in patria per motivi vari. Sono arrivata in Italia, a Roma, tre anni fa lasciando a casa mio marito e mio figlio maggiore, che aveva al tempo 10 anni. Qui Liam è stato preso in carica dall’Unità Operativa di Audiologia e Otochirurgia, guidata dal prof. Pasquale Marsella”.

“Dopo alcune analisi, è stata riscontrata la ipoacusia profonda bilaterale. Ma risultò anche un candidato valido per l’impianto cocleare, un piccolo dispositivo elettronico, tecnologicamente molto complesso, che permette alle persone sorde di sentire nuovamente i suoni. Un anno e mezzo fa a Liam è stato applicato l’impianto ed è avvenuto il miracolo che tanto ho cercato: mio figlio, per la prima volta in vita sua, ha sentito i suoni. E’ uscito dalla bolla di silenzio assoluto nel quale viveva da 8 anni – cioè dalla nascita – e ha iniziato ad aprirsi al mondo: è stata un’emozione grandissima. All’Ospedale della Santa Sede siamo stati trattati come se io e mio figlio fossimo la loro famiglia: nonostante le difficoltà e la lontananza da casa, non ci siamo mai sentiti soli o abbandonati a noi stessi. Il personale tutto ha dimostrato un’umanità davvero speciale”.

“Qui in Italia Liam è praticamente rinato per la seconda volta. Ha una nuova vita molto più bella: sta imparando a parlare, ha imparato la lingua dei segni, va a scuola con gli altri bambini in seconda elementare e gioca a basket. E’ un bimbo di 8 anni intelligente e perfettamente integrato. Fossimo rimasti in Burundi, senza questo viaggio in Italia, mio figlio sarebbe rimasto sordo e isolato per sempre. Devo solo dire grazie all’Italia e agli italiani, a partire dai medici e infermieri dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma che continuano a seguirci ancora oggi, nonostante noi viviamo in un’altra Regione. Ma anche a tutti i genitori e bambini che ci hanno accolto fuori dall’ambito ospedaliero: a scuola, in squadra, in chiesa. Inoltre, pochi giorni fa, il regalo di Natale: dopo tre lunghi anni, ho potuto riabbracciare mio marito e mio figlio maggiore che ci hanno raggiunti in Italia. Infatti, io lavoro in Italia come OSS e abbiamo potuto fare il ricongiungimento. Finalmente, dopo tanto tempo, siamo di nuovo uniti. Ma con un miracolo in più: mio figlio, ora, ci sente!”.