Don Maurizio Pallù: “La mia testimonianza di sacerdote rapito in Nigeria”

Finito nelle mani di banditi per due volte, il sacerdote, intervistato da Interris.it, racconta la sua esperienza

Don Maurizio Pallù sa bene cosa significa essere rapito in Africa. Per due volte è stato nelle mani dei rapitori in Nigeria, a un anno esatto di distanza. Il primo rapimento risale al 13 ottobre del 2016 ed è stato rapidissimo, poco più di una rapina. In un’ora e mezzo si è consumato tutto, sulle strade di Calabar, nell’estremo sud della Nigeria. Il secondo avviene esattamente dodici mesi dopo, il 12 ottobre del 2017 e dura per diversi giorni. In quelle occasioni il sacerdote del Cammino neocatecumenale impara a conoscere la mentalità e il modo di agire delle bande criminali nigeriane.

Da ex sequestrato cosa vorrebbe dire a Silvia Romano?
“Il punto fondamentale della mia esperienza è stato il perdono ma il processo è lungo ed è un dono di Dio. Tuttavia non ho mai provato rancore e risentimento, paura sì ma non odio. Pregavo per loro e quando l’ho detto al capo dei sequestratori si è allentata la tensione e lui mi ha offerto una sigaretta e mi ha ringraziato per le preghiere sottolineando che ne avevano proprio bisogno. Dopo quel colloquio hanno smesso anche di trattare male gli altri due ostaggi, un musulmano e una donna cristiani, che erano con me al momento dei sequestro. Tutto questo avveniva il 13 ottobre (del 2017, ndr) giorno della ricorrenza del miracolo del sole a Fatima e guarda caso io sono molto devoto alla Madonna di Fatima”.

In quali condizioni psicologiche vive un sequestrato?
“Il perdono e l’amore mi hanno tenuto psicologicamente intatto, poi io sono stato rapito per pochi giorni, quindi non posso fare confronti con l’esperienza della Romano. Nel mio caso la paura e l’adrenalina hanno accompagnato tutta la mia esperienza, infatti sentivo la sete ma non la fame. Ho bevuto solo acqua sporca di terra, era arancione, la preghiera mi ha sicuramente aiutato a non ammalarmi”.

Erano estremisti islamici i rapitori?
“No, erano dei banditi comuni. Mi hanno consentito di tenere un’immaginetta della Madonna e il Rosario”.

Come considera la conversione all’islam della giovane cooperante italiana?
“Su questi eventi è difficile pronunciarsi, i diari della ragazza sono stati sottratti, non possiamo metterci nelle sue scarpe. Certo quando uno si trova in balia totale di altre persone ci si aggrappa anche a dei sequestratori come un ancora di salvataggio. Si cerca di entrare in relazione con loro per uscirne vivi”.

Lei però è riuscito ad avere un forte ascendente sui suoi sequestratori…
“Forse sì. Diciamo che ho provato ad istaurare una relazione con il capo di questa banda perché ho capito che in questo modo avrei potuto salvare tutti. Lui in maniera furba ha assunto questo ruolo di mediatore e poi ha mandato via i membri del gruppo più violenti”.

Quindi avete subito violenze?
“Io no ma i miei due compagni di prigionia sì. Questo amico musulmano veniva bastonato tutti i giorni e la ragazza cristiana è stata abusata più volte, con particolare brutalità da quel bandito più violento che è stato poi mandato via insieme ad altri due soggetti. Dopo questo allontanamento sono cessati gli abusi sessuali e le violenze. E’ certo che avere una buona relazione con i propri carcerieri apre vie insperate”.

Possiamo dire che la Chiesa è più preparata ad affrontare certi contesti rispetto alcune Ong che mandano i loro operatori allo sbaraglio?
“Noi siamo chiamati dalla Chiesa locale e rispondiamo per andare ad annunciare il vangelo e approfondire la fede delle persone. La Nigeria è una nazione immensa con un sviluppo economico più alto delle altre nazioni africane, ma è un gigante con i piedi d’argilla perché e le diseguaglianze sono fortissime. Noi annunciamo a tutti che Cristo è risorto e che non paga vivere nelle menzogna. La popolazione locale con noi si apre veramente molto spesso invece con gli altri occidentali resta un velo di menzogna perché restiamo sempre coloro che rappresentano i paesi che li hanno colonizzati e dominati. Quando si rompe questa barriera allora ti dicono tutti quello che pensano”.

Quindi si fidano di lei…
“La globalizzazione e il progresso non hanno eliminato il fatto che la realtà africana è profondamente tribale e legata alla famiglia. Questo perché davanti alla mancanza dello Stato c’è bisogno di una clan familiare forte, parliamo di almeno 300-400 persone che ti supporta quando sei anziano e raccolgono fondi per mandarne uno o due membri del clan in Europa. Il clan si regge su cose positive e cose meno positive, noi portiamo una nuova visione che mette Dio al primo posto. C’è bisogno di famiglie cristiane che mettano Dio al primo posto. Di giovani che iniziano a osare e mettono Cristo al centro della vita, i frutti si vedono a lungo termine perché questi ragazzi avranno delle basi più solide. Mettere Cristo al primo posto in alcuni territori è una scelta di fede ben più alta e difficile della nostra”.

Lei ha avuto rapporti anche con l’Islam radicale?
“Non direttamente perché il gruppo terroristico Boko Haram opera nel nord della Nigeria, nello stato del Borno. Una delle nostre missioni è nella zona di Kaduna, nel centro-nord, dove ci sono stati attacchi dei jihadisti. La città è divisa in due da un fiume, a nord del quale si trovano i musulmani e a sud i cristiani. La maggior parte delle persone sono di buon senso ma con la povertà e la corruzione dilagante la persone diventano facilmente influenzabili”.

Come procede il dialogo tra cristiani e musulmani?
“La Nigeria ha un’ottima conferenza episcopale che esprime una grande carica profetica. I vescovi dialogano con tutti ma sono stati chiari sulla corruzione e le relazioni tra religioni. Davanti al presidente del Paese hanno denunciato gli attacchi dei pastori fulani di fede musulmana contro gli agricoltori cristiani. Queste tensioni avvengono nella cosiddetta middle belt (cintura di mezzo, ndr) che passa per il centro del Paese e dove convivono i due gruppi religiosi (i cristiani sono maggioranza al sud e musulmani lo sono nel nord della Nigeria, ndr)”.

Lei, assieme alla tua equipe, in quali parti del Paese opera e quali iniziative portate avanti?
“Operiamo a Lagos, Calabar e Kaduna. In particolare a Kaduna siamo presenti a Gonin Gora, un agglomerato urbano nato e cresciuto in fretta all’inizio del nuovo millennio, dove sono state erette centinaia di casupole e baracche che raccolgono la vita e talvolta la nuda sopravvivenza di almeno 200 mila persone, tutte di religione cristiana, fuoriuscite dalla contigua città  all’indomani di una serie di scontri sanguinosi che tra il 2000 e il 2001 hanno lasciato a terra migliaia di vittime, tra cristiani e musulmani,  in cui nessuno si è sentito in dovere di porgere l’altra guancia. Nell’arco di vent’anni Kaduna, circa 2 milioni di abitanti, posta proprio al cuore della Nigeria, è tornata gradualmente alla normalità, in una convivenza inter-religiosa tutto sommato tranquilla. Mentre Gonin Gora ha continuato a crescere, con le sue strade polverose e il reticolo di fogne a cielo aperto”.

A questo riguardo, Don Maurizio, lei sta portando avanti una nuova iniziativa a Gonin Gora, può parlarcene?
“E’ un progetto per iniziare una vera e propria implantatio ecclesiae. Secondo i parametri occidentali non è che un piccolo intervento. Poche migliaia di euro per comprare un vecchio edificio e trasformarlo nel baricentro di questa piccola comunità cattolica che vive a Gonin Gora. Vogliamo realizzare una casa semplice ma dignitosa per accogliere una famiglia che, in pianta stabile, possa spendersi per l’annuncio della Buona Notizia nel sobborgo e così trasformarsi lentamente nel nucleo stabile di una parrocchia che per adesso esiste nelle aspirazioni dei missionari e, forse, anche nei disegni del Signore. Poche migliaia di euro che possono fare la differenza a Gonin Gora. Ma anche nella vita di chi ha il potere di tenere viva la fiamma della generosità”.

Per concludere torniamo al caso di Silvia Romano, possiamo dire che nei momenti di disperazione la ricerca Dio diventa più spasmodica?
“Non possiamo giudicare il cuore delle persone, può capitare che uno che ha una conoscenza poco profonda di Dio poi con un esperienza forte si avvicino ad esso. Ad ogni modo dobbiamo rispettare la sofferenza di questa persona. In questo momento meglio una parola in meno e una preghiera in più”.