Don Coluccia: “Il senso del sacerdozio è testimoniare l’esserci di Dio”

L’intervista di Interris.it a don Antonio Coluccia, sacerdote vocazionista e “prete di strada” contro la criminalità organizzata

Con il Giovedì santo si apre il Triduo pasquale, il tempo dell’anno liturgico che va dalla Cena del Signore, la cosiddetta ultima cena di Gesù insieme ai discepoli, alla Resurrezione. E’ la sera in cui Gesù, dopo aver lavato i piedi agli apostoli, istituisce il sacramento dell’Eucarestia, con le parole “questo il mio corpo che è dato per voi” mentre distribuisce il pane consacrato, e il sacerdozio cristiano, dicendo ai discepoli “fate questo in memoria di me”, prima del suo arresto, quella stessa notte, nel giardino del Getsemani sul Monte degli Ulivi.

I riti liturgici

In questa giornata, tutti i presbiteri commemorano l’istituzione dell’Ordine sacro avvenuta nel corso della Cena del Signore, tornando all’origine del senso del sacerdozio e rinnovando le promesse fatte il giorno dell’ordinazione sacerdotale. “Io, come sacerdote, mi devo conformare a Cristo e ai sacri impegni assunti con gioia verso la Chiesa, nel giorno della consacrazione sacerdotale, facendomi guidare non dagli interessi umani ma dall’amore per i fratelli”, spiega a Interris nell’intervista che segue don Antonio Coluccia, sacerdote vocazionista pugliese e “prete di strada” che da anni si oppone alla criminalità organizzata e allo spaccio nel quartiere romano di San Basilio. Al mattino infatti si celebra la messa del crisma, che sempre don Coluccia definisce “un intenso momento spirituale”. Nelle cattedrali di tutto il mondo si riuniscono i sacerdoti e i diaconi, insieme al vescovo della diocesi – a Roma in San Pietro con il Santo Padre – per la conferma della Chiesa. Nel corso della cerimonia si consacra il crisma, l’olio benedetto che sarà utilizzato l’anno successivo per i battesimi, le cresime e le ordinazioni, insieme agli altri tre oli per il battesimo, l’unzione degli infermi e per i catecumeni. Il secondo rito liturgico del Giovedì santo è la messa vespertina in Coena Domini, con la tradizionale lavanda dei piedi, simbolo di ospitalità e di servizio.

L’intervista

C’è chi si mette al servizio dei fratelli e va a “lavare i loro piedi” andandoli a cercare nei luoghi più marginalizzati, dove si corre il rischio. Con la sua “pastorale di strada” don Coluccia, fondatore dell’Opera di don Giustino, va ad evangelizzare e a portare conforto e aiuto ai più fragili e vulnerabili di una porzione della periferia capitolina. Prete-“poliziotto ad honorem” – ha ricevuto un encomio per la sua lotta al traffico di stupefacenti e alla sua attività di sostegno e recupero dei giovani dalla Polizia di Stato lo scorso 29 settembre –, da anni sotto scorta, oggetto di minacce, intimidazioni, petardi e bombe carta contro la “palestra della legalità” aperta a San Basilio in partnership con il gruppo sportivo delle Fiamme Oro, che non lo hanno mai fermato, ha condiviso con Interris la sua riflessione sul Giovedì santo, senso del sacerdozio e su come si costruisce la speranza.

Il Giovedì santo è il giorno dell’ultima cena, quando Gesù istituisce l’Eucarestia donando, con il pane spezzato e il vino, il suo corpo e il suo sangue. Questo gesto racchiude anche il senso del sacerdozio, è alla fonte della chiamata di un sacerdote. Qual è stata l’origine della sua chiamata?

“Da bambino ero stato in seminario minore, poi ho proseguito con le scuole ‘normali’ ma questa piccola fiamma deve essere rimasta accesa dentro di me. Col tempo ho lavorato in fabbrica, sono diventato sindacalista, mi sono fidanzato ed sono diventato presidente di un’associazione di volontariato. Nel corso di una missione a Valona, in Albania, ho sentito la  vocazione. Al mio ritorno ne ho parlato con il sacerdote del mio paese, per poi intraprendere un cammino di discernimento vocazionale”.

In questo giorno si celebra la messa crismale, una liturgia che riunisce tutto il clero, in cui si rinnova la promessa. Cosa rappresenta questo momento per un sacerdote?

“E’ un intenso momento spirituale, per la gioia di ritrovarsi, con indosso la stola e il grembiule, riuniti intorno al vescovo, e per la sacralità della situazione. E’ un momento in cui comprendiamo l’identità di Gesù, colui che si china per servire e istituisce l’Eucarestia e il sacerdozio. Si rinnovano le promesse di conformarsi al Signore Gesù, io come sacerdote mi devo conformare a Cristo, ai sacri impegni assunti con gioia verso la Chiesa nel giorno della consacrazione sacerdotale, e mi devo far guidare non dagli interessi umani ma dall’amore per i fratelli. Amare i fratelli significa mettersi in gioco, significa essere pastori, significa essere a braccia aperte per accogliere, significa prendere posizione per chi si ama sul serio. Gesù è la logica di chi si china sull’altro e l’accoglie così, è farsi prossimo”.

La sua, padre, è una “pastorale di strada” e lei va a “lavare i piedi” dei fratelli nelle piazze di spaccio. Quale “sporco” leva?

“In una piazza di spaccio ho visto un ragazzo, gli ho detto che lo avrei portato da un giovane, Gesù, che era stato già incompreso, prima di lui, e gli ho detto di andare in parrocchia. La mattina dopo sono andato a controllare e l’ho trovato lì, mi ha chiesto un barattolo di ceci e un pezzo di pane. In questi casi non si ragiona con i ‘se’ e con i ‘ma’, è lì che si vede la prossimità di Cristo”.

Ci può parlare della sua casa di accoglienza per i poveri e gli “invisibili”?

“Il motto della casa di accoglienza, in una villa confiscata appartenuta alla Banda della Magliana, a Roma nord, è ‘accogliere con il Vangelo alla mano per cicatrizzare le ferite’: ho iniziato quest’opera in parrocchia accogliendo padri divorziati, persone senza dimora o giovani che usavano sostanze stupefacenti, poi c’è stata la necessità di creare un qualcosa in più. Nella mia cappellina ci sono una brocca e un asciugatoio: la forza è nel servizio e Gesù ci ha dato l’esempio. Lavare i piedi oggi al ragazzo schiavizzato, al ragazzo che mi chiede aiuto, alla madre che piange per i propri figli, a quella persona che vedo umiliata e derisa al lato della strada, a quello donna che ha subito violenza, è costruire speranza, quella speranza che Gesù ci ha donato, insieme, percorrendo la strada della responsabilità e del bene comune. Mi rifaccio alle parole di don Giustino Russolillo, fondatore della Congregazione religiosa dei Vocazionisti, che sarà canonizzato il prossimo 15 maggio: ‘Credo e vedo in ogni anima un Santo, anche sotto la scorza del male stimo e venero il possibile Santo futuro’”.

Le persone che incontra sono disposte a lasciarsi “lavare”?

“Ci sono coloro che si predispongono e coloro che prima ti rifiutano ma poi ti cercano. Non dobbiamo abbandonare questa fede, Cristo opera in ogni cosa che facciamo quando mettiamo al centro il bene dell’altro. Il Vangelo deve essere condivisione”.

La guerra in Ucraina è un “moderno” Calvario?

“Rivivere la passione di Gesù Cristo ci fa comprendere il mondo e gli uomini di oggi, ci sono i persecutori, i crocifissori (che per me sono gli spacciatori), ci sono i perseguitati e c’è chi guarda. La guerra è un fallimento, è solo distruzione. Il gesto di papa Francesco di consacrare Russia e Ucraina ha lanciato il messaggio universale che Dio è padre di tutti, la Chiesa cattolica guarda al bene dei popoli. I cristiani sono uomini e donne di non violenza che ripudiano la guerra”.

Qual è per lei il senso del sacerdozio?

“Il sacerdote deve essere in grado di saper guardare, di sapere abbracciare, di testimoniare l’esserci di Dio. Il sacerdote deve avere la capacità di poter dire ‘Nel nome di Dio io ti battezzo’ con la forza che gli viene dall’alto. Il sacerdote deve avere a cuore la vita dei ragazzi”.