Ciccarese (Ispra): “Cosa fare entro il 2030 per ripristinare la biodiversità”

In occasione della Giornata internazionale per la diversità biologica, l’intervista di Interris.it al responsabile dell’Area conservazione della biodiversità terrestre dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) Lorenzo Ciccarese

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Passare dalle parole ai fatti. E’ il senso del tema dell’edizione di quest’anno della Giornata internazionale per la diversità biologica “dall’accordo all’azione: ricostruire la biodiversità”. Nel ripensare il nostro rapporto con il patrimonio biologico che ci circonda sul pianeta che ci ospita, passando dal paradigma dello sfruttamento intensivo delle sue risorse a quello del ripristino della biodiversità e dell’uso sostenibile e rispettoso di quello che gli ecosistemi producono, possiamo puntare a ridurre l’insicurezza alimentare, la diffusione delle malattie e i danni dovuti agli effetti del cambiamento climatico.

Bio-ricchezza

L’interazione tra tutti i componenti della diversità biologica è infatti essenziale per la nostra vita sulla Terra anche agli attuali livelli di sviluppo raggiunti, in alcune parti del mondo più di altre. Secondo l’organizzazione non governativa World economic forum, nel suo rapporto 2020 sulla nuova economia basata sulla natura, oltre la metà del pil mondiale – 44mila miliardi di dollari di valore economico – dipendono in misura, moderata o elevata, dalla natura. Un dato permette di vedere la realtà più da vicino: 1,6 miliardi di persone fanno affidamento sulle foreste per il proprio sostentamento.

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Gli obiettivi

La biodiversità viene però danneggiata da molte attività umane, che per esempio causano la distruzione o la degradazione degli habitat o la sfruttano intensamente, come dai cambiamento climatici, attraverso l’aumento delle temperature, che altera gli ecosistemi provocando la perdita di specie locali e le migrazioni forzate, e gli eventi meteo-climatici estremi. Per cercare di invertire la tendenza, lo scorso dicembre alla quindicesima Conferenza delle nazioni che hanno aderito alla convenzione Onu per la biodiversità, tenutasi  a Montreal, in Canada, si è raggiunto l’accordo su un Quadro globale che poggia su una visione di un mondo in armonia con la natura per rallentare la perdita di biodiversità e accelerarne il ripristino. Il documento indica 23 target di “medio periodo” da raggiungere entro il 2030 e quattro obiettivi il cui orizzonte è il 2050.

L’intervista

In occasione della Giornata internazionale per la diversità biologica, Interris.it ha intervistato Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’Area conservazione della biodiversità terrestre dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e rappresentante nazionale all’ Intergovernmental Science-Policy Plaftorm on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes).

Circa un milione di specie, tra animali e piante, è a rischio estinzione. Qual è oggi lo stato di salute della biodiversità?

“La biodiversità è territoriale, cambia da regione a regione del pianeta, e le specie a rischio estinzione lo sono in massima parte per le attività umane. I fattori sono cinque: la distruzione  degli habitat; il prelievo eccessivo di risorse biologiche, soprattutto con la pesca; l’inquinamento dell’acqua, del suolo e dell’atmosfera; le specie aliene invasive; gli effetti del cambiamento climatico. Non c’è uno specifico gruppo tassonomico più a rischio di altri, forse si possono nominare da un lato gli anfibi, la cui biologia è legata a specifiche condizioni ambientali, e i rettili, mentre dall’altro, tra le piante, le palme e le orchidee. Ma anche migliaia di vertebrati sono minacciati dall’estinzione, si pensi al bisonte europeo e al cavallo di Prezwalski – anche se oggi stiamo assistendo a un loro ‘ritorno’ in virtù dei programmi di conservazione, fondati sullo studio approfondito degli habitat preferiti dagli animali oggetto di conservazione, sulle misure di tutela e sulla creazione delle condizione ottimali per la riproduzione”.

Una biodiversità in cattivo stato può facilitare la diffusione delle zoonosi, quelle malattie causate da agenti trasmessi, per via diretta o indiretta, all’uomo  dagli animali. Qual è il nesso?

“Il saggista e divulgatore scientifico David Quammen, l’autore del libro Spillover. L’evoluzione delle pandemie, ci dice che siamo noi, gli esseri umani, che ‘andiamo a trovare’ le zoonosi. Queste sono aumentate in maniera esponenziale perché sono cresciute le occasioni di interfaccia tra umano e non umano. La globalizzazione, il commercio di specie aliene, le pratiche intensive di allevamento, il nostro ingresso negli spazi naturali, aumentano questa interfaccia e le possibilità di traboccamento di agenti patogeni che possono generare epidemie”.

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Quali progressi sono stati fatti alla Cop15 di dicembre, con l’adozione del Quadro globale sulla biodiversità?

“La giornata di oggi è dedicata all’attuazione di questo accordo che guarda al medio e lungo termine per raggiungere i traguardi (targets) che ci siamo posti entro il 2030 e gli obiettivi (goal) al 2050. Tra i primi, il Target 3 chiede a tutti i Paesi di realizzare entro il 2030 il 30% di aree protette, considerando tutti gli ecosistemi: le aree interne e quelle marine, le acque interne e quelle costiere. Questa percentuale va raggiunta non solo attraverso le aree protette ‘convenzionali’, ma anche con altre misure di conservazione su base territoriale. Alcune aree, come gli orti storici, i frutteti ad alto valore naturalistico, gli habitat apparentemente di carattere antropico, sono depositarie di diversità genetica. Sempre quel target indica anche che queste aree devono essere ben gestite e ben governate e tra loro geograficamente connesse, in modo tale da non avere da un lato delle ‘isole protette’ trascurando però quello che c’è intorno a loro. La connessione inoltre è importante per garantire dei corridoi ecologici a quelle che specie che dovessero spostarsi a quote più elevate o verso il poli, alla ricerca di condizioni ecologiche più adatte a quelle tipiche degli aerali in cui sono sempre vissute, ora modificate dai  cambiamenti climatici”.

Come ripristinare la biodiversità?

“L’Ispra lavora a supporto del Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica per l’individuazione delle specie e delle aree prioritarie da sottoporre a regime di protezione. Oggi siamo a 21. Potremo centrare il Target 3, anche contando sul contributo che potranno dare le aree che saranno scelte per connettere le aree protette tra di loro. Un secondo target altrettanto importante è quello che richiede di ripristinare il 30% degli ecosistemi ritenuti naturalisticamente degradati.  Il ripristino si può fare mediante la piantagione, la ricostruzione delle dune e delle aree umide della vegetazione che le caratterizza, la riduzione delle minacce del suolo agricolo. Per la reintroduzione e lo sviluppo di pratiche agro-ecologiche”.

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Come far sì che le attività umane abbiano il minor impatto possibile sulla biodiversità?

“Innanzitutto occorrerebbe ragionare meglio sull’utilità e la sostenibilità delle infrastrutture, per esempio alcune impediscono la connettività tra aree le protette. Il disegno dei futuri progetti infrastrutturali deve tenere conto dei valori della natura. Inoltre servono spazi verdi, all’interno e intorno alle città, che siano economicamente sostenibili, per ridurre le isole di calore e gli effetti degli eventi climatici estremi. Tra i 23 target dell’accordo quadro si parla dell’integrazione della natura nelle attività economiche e del bisogno di politiche e di normative nuove, di una ristrutturazione dei sistemi finanziari e di investimenti sulle soluzioni basate sulla natura, che devono essere positive per essa e andare nella direzione della mitigazione degli effetti del cambiamento climatico. In Italia si sono fatte diverse esperienze di riforestazione di aree urbane e periurbane, questo è un esempio di soluzioni basate sulla natura che non richiedono investimenti elevati. Per la tutela del verde urbano ed extraurbano, Ispra partecipa a un progetto del Ministero dell’Ambiente finanziato con fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che prevede di piantare oltre sei milioni di alberi in 14 città italiane per evitare che gli spazi verdi siano consumati per altri scopi. Altre soluzioni praticabili possono essere la reintroduzione di elementi di naturalità nelle aziende agricole, come piccoli boschi, filari e siepi, e la ricostruzione di muretti a secco per la nidificazione e il nutrimento di rettili o altri animali”.

Sia papa Francesco che il documento della Cop15 sottolineano l’importanza delle popolazioni indigene e delle comunità locali. Quale può essere il loro ruolo e il loro contributo nel processo di recupero della biodiversità?

“C’è una larga evidenza scientifica sul fatto che, quando le comunità locali e soprattutto le popolazioni indigene sono coinvolte nella definizione del perimetro dell’area protetta o nello stabilire quali debbano essere i principi di conservazione e di gestione, si ottengono migliori risultati. Questo è reso possibile anche grazie alla loro conoscenza del territorio e al sapere locale dei benefici della natura”.