Quando, 10 anni fa, Bergoglio divenne portavoce di chi non ha voce

Ainvitare come relatore l’arcivescovo di Buenos Aires erano stati i suoi confratelli dell’Università gesuita del Salvador. Non lo sapevano ma quella data, il 30 settembre 2009, sarebbe presto entrata negli annali della storia ecclesiastica. Jorge Mario Bergoglio prese la parola e calamitò l’attenzione dell’uditorio con un accorato e rigoroso monito contro “la povertà estrema e le strutture economiche ingiuste che causano grandi disuguaglianze e che costituiscono gravi violazioni dei diritti umani”.

Dalla parte dei poveri

Il presule di origini italiane che quattro anni prima era stato, dopo Joseph Ratzinger, il più votato al conclave si proponeva all’Argentina e al mondo come il portavoce di chi non ha voce, dei poveri “perseguitati appena chiedono di poter lavorare”. In una nazione in ginocchio per la crisi economica, Jorge Mario Bergoglio si schierò contro il drastico taglio dei salari e delle pensioni dei dipendenti pubblici, denunciando condizioni strutturali “immorali, ingiuste e illegittime” alle quali era doveroso opporsi. Invocò dai credenti “una risposta etica, culturale e solidale” per liberare la società dalla schiavitù dell’indebitamento sociale: milioni di argentini senza il minimo indispensabile per vivere a fronte di colossali arricchimenti personali e corporativi di pochi privilegiati.

Sulle orme di Paolo VI

Da sempre il magistero della Chiesa considera la povertà una privazione grave di beni materiali, sociali, culturali che minaccia la dignità della persona. I poveri sono quanti soffrono di condizioni disumane per quanto riguarda il cibo, l’alloggio, l’accesso alle cure mediche, l’istruzione, il lavoro, le libertà fondamentali. 8 dicembre 1965. La chiusura del Vaticano II offre l’occasione a Paolo VI per un ispirato messaggio ai poveri: “O voi tutti che sentite più gravemente il peso della croce, voi che siete poveri e abbandonati, voi che piangete, voi che siete perseguitati per la giustizia, voi di cui si tace, voi sconosciuti del dolore, riprendete coraggio: voi siete i preferiti del regno di Dio, il regno della speranza, della felicità e della vita, siete i fratelli del Cristo sofferente e con lui, se lo volete, voi salvate il mondo”, scrive papa Montini. “Sappiate che non siete soli, né separati, né abbandonati, né inutili: siete i chiamati da Cristo, la sua immagine vivente e trasparente. Nel suo nome, il Concilio vi saluta con amore, vi ringrazia, vi assicura l’amicizia e l’assistenza della Chiesa e vi benedice”.

Patto delle catacombe

Pochi giorni prima di questo accorato appello, il 16 novembre 1965, 42 vescovi firmarono nella Catacombe di Santa Domitilla, a Roma, il cosiddetto “Patto delle catacombe”, per sancire l’impegno di realizzare una Chiesa povera per i poveri. Pochi giorni dopo la sua elezione, il 16 marzo 2013, papa Francesco riproponeva, parlando ai rappresentanti dei mass media, il tema di una Chiesa vicina alle fasce sociali più emarginate, ai diseredati, agli indigenti, a chi subisce soprusi e ingiustizie. “Riconoscendo Cristo in queste persone, 42 presuli vollero firmare, cinquant’anni fa, un documento, che poi venne sottoscritto anche da altri 500 vescovi, per mettere in evidenza, nella Chiesa che si rinnovava, l’opzione per i poveri e per uno stile di vita sobrio“, racconta nel novembre 2015 a Radio Vaticana monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, uno di quei presuli firmatari, su impulso dell’arcivescovo brasiliano dom Helder Câmara. “Ci presentarono questo elenco di impegni, perché i vescovi cominciassero a vivere più semplicemente, fossero vicini ai lavoratori, ai poveri, ai sofferenti e non avessero dei conti in banca loro”, spiega Bettazzi. “Mezzo secolo dopo, il ricordo del Patto delle catacombe rivive e diventa attuale, soprattutto nell’atmosfera che Francesco sta indicando a tutta la Chiesa”.

La lezione dell’Amazzonia

Monsignor Erwin, vescovo in Amazzonia, ha offerto la sua collaborazione all’enciclica di Francesco, Laudato si’. Anche oggi la Chiesa, stimolata da Francesco, si rivolge alle sofferenze e alle difficoltà della società, guardando, come Jorge Mario Bergoglio ha più volte esortato, alle periferie del mondo. Francesco ha detto che la Chiesa ha bisogno di andare nelle periferie. Kräutler vive in Amazzonia e il papa, nella sua enciclica Laudato si’, ha parlato dell’Amazzonia e anche degli indigeni. Per il presule missionario è una vittoria della Chiesa, una vittoria del popolo dell’Amazzonia, una vittoria dei vescovi dell’Amazzonia e della Chiesa in Amazzonia. Come ha ricostruito il teologo domenicano Alain Durand per Aggiornamenti Sociali nel novembre 2012 l’espressione “scelta prioritaria” (o “opzione preferenziale”) per i poveri è stata integrata nella dottrina sociale della Chiesa da Giovanni Paolo II. “Essa proviene dall’America Latina, in primo luogo dalla corrente della teologia della liberazione, ma anche dalle riflessioni sviluppate dai vescovi in due dei periodici incontri della Celam (conferenza episcopale dell’America Latina e dei Caraibi)”, osserva padre Durand.

L’opzione preferenziale

Nella Conferenza di Medellín (1968) è stata indicata una distribuzione degli sforzi e del personale apostolico che dia preferenza effettiva ai settori più poveri e bisognosi, poi a Puebla (1979) l’espressione “opzione preferenziale per i poveri” fu direttamente utilizzata e di là essa si estenderà alla Chiesa intera. Precedentemente, subito prima dell’apertura del Vaticano II, nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962, Giovanni XXIII aveva affermato: “La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Il Concilio fa riferimento alla povertà nella costituzione pastorale Gaudium et Spes (3, 69, 88). Di scelta prioritaria per i poveri si era iniziato a riflettere in un continente profondamente segnato da una presenza massiccia dei poveri, ma soprattutto dall’emergere della loro coscienza sulla scena continentale. Era l’epoca in cui imperversavano in America Latina numerose dittature che ricorrevano a metodi repressivi nei confronti dei movimenti popolari e in cui si installavano imprese multinazionali dal comportamento predatorio.

Il rapporto Rockefeller

Gli Stati Uniti esercitavano forti pressione sul Sud America. Il celebre rapporto Rockefeller (1969) e i successivi due documenti di Santa Fe esortavano l’amministrazione nordamericana a lottare contro la Teologia della liberazione, giudicata nefasta. “A un certo numero di teologi e di pastori non appariva più possibile pensare la fede cristiana senza articolarla con una pratica sociale e politica che favorisse la liberazione dei poveri”, puntualizza padre Durand. “Erano condotti a rileggere la Bibbia a partire dalla situazione dei poveri, pratica divenuta abituale nelle comunità ecclesiali di base. A poco a poco si costruì un discorso teologico che assegnava ai poveri un posto centrale nella comprensione della fede e orientava verso la costruzione di una “Chiesa dei poveri” e a un cambiamento delle strutture sociali oppressive”. La teologia della liberazione trasformò la scelta preferenziale per i poveri nell’asse centrale della propria riflessione.