Nixon-Paolo VI, 50 anni dall’incontro di due mondi

Quando 50 anni fa Paolo VI accolse in Vaticano Richard Nixon, L’Osservatore Romano definì il presidente degli Stati Uniti “capo di una grande nazione che comprende tra i suoi cittadini quaranta milioni di cattolici”. Fino al 1984 non ci sono state piene relazioni diplomatiche Usa-Santa Sede. Prima di Nixon c’erano state le visite di John Kennedy nel 1963 e di Lyndon Johnson nell’ottica dell’azione che la “Chiesa persegue per le cause inseparabili dell’umanità e della pace”. Mezzo secolo fa, Nixon fu ricevuto da Paolo VI nella Biblioteca per un colloquio privato di un’ora e quindici minuti. Il Papa esortò l’inquilino della Casa Bianca ad assicurare “un contributo alla cessazione dei conflitti e impedire altre contese armate proseguendo nel sicuro cammino verso una pace durevole e favorendo prosperità attraverso larga e feconda intesa”, mentre Nixon evidenziò la necessità della “leadership spirituale e morale” che il Papa rappresentava “in Vaticano e nei suoi viaggi e nelle nazioni del mondo”, sottolineando che le parole di Paolo VI erano state “fonte di profonda ispirazione”. Si disse certo che le preghiere del Papa lo “avrebbero sostenuto negli anni futuri” e che insieme si sarebbero potute trovare quelle “risposte che danno al mondo un assetto basato sulla pace e sulla giustizia per tutti i popoli”. Sarà poi Giulio Andreotti a riflettere in vari scritti sulla storia dei rapporti diplomatici degli Stati Uniti d’America con il Vaticano, a partire da quel 1788 quando George Washington fece comunicare a Pio VI, tramite Benjamin Franklin, che nella nuovissima Repubblica non vi era bisogno di alcun permesso per la nomina di un vescovo da parte della Santa Sede.

La nomina dei vescovi

“Nel corso di due secoli vi sono stati momenti facili ed altri meno; sempre con il riflesso del pluralismo religioso di laggiù, insieme alla rigorosa laicità dello Stato (che non toglie però – anzi! – di scrivere sulla tomba del soldato ad Arlington: “Sconosciuto a tutti ma non a Dio”) – ricorderà Andreotti -. Nel luglio 1963, quando venne a Roma in visita ufficiale il presidente John Kennedy, ebbi modo di chiedergli, in una colazione ristretta a palazzo Taverna, come mai non si concludesse l’allacciamento di relazioni diplomatiche tra loro e il Vaticano. Mi rispose senza equivoci che avrebbe potuto porre il problema se fosse stato rieletto. Doveva essere molto attento a non creare una questione cattolica”. Purtroppo il nuovo quadriennio non fu suo. “Quattro mesi dopo i colloqui di Roma venne assassinato a Dallas. Sarebbero passati molti anni prima che Congresso e governo arrivassero alla elevazione del rappresentante personale a vero e proprio ambasciatore – aggiunse Andreotti -. Bob Wilson, amico personale del presidente Reagan, svolse un efficace lavoro. Ma ormai le relazioni sono indiscusse. Del resto, salvo poche dolorose eccezioni, in Vaticano sono accreditati ambasciatori di tutto il mondo, appartenenti ai più diversi indirizzi culturali e politici”. Ha rievocato Jim Nicholson, ex ambasciatore Usa presso la Santa Sede: “Era il 1788 quando il papa, Pio VI, inviò un emissario a Parigi per incontrare il diplomatico appena assegnatovi dalla nuova Repubblica nel Nord America, gli Stati Uniti. Il diplomatico era Benjamin Franklin, e la richiesta che il Papa gli fece fu semplice e concisa: sarebbe stato d’accordo il presidente George Washington che il Papa nominasse un vescovo nel nuovo Stato? Ligio al dovere, Franklin riportò la domanda al presidente Washington, e ciò che tornò a dire al Papa era che egli avrebbe potuto nominare qualunque vescovo avesse voluto per gli Stati Uniti, poiché quello che la rivoluzione aveva portato alle colonie era proprio la libertà, inclusa la libertà religiosa”. Il Papa prontamente designò un gesuita, padre John Carroll, a divenire il primo vescovo cattolico d’America. Il Papa, da allora, ha costituito la gerarchia della Chiesa negli Stati Uniti libero da ogni interferenza del governo. Questo incontro con Franklin diede inizio a un rapporto che alla fine condusse a piene relazioni diplomatiche, che però non furono tali fino al 1984, 196 anni più tardi. Qualcuno si chiede perché ci sia voluto così tanto tempo. Altri si chiedono: per quale motivo deve esistere questo rapporto? Un inviato speciale del presidente, Henry Cabot Lodge, era solito rispondere a questi interrogativi narrando una storia. Lodge, il quale rappresentava il presidente Nixon in Vaticano, raccontava di un suo amico, un diplomatico musulmano presso la Santa Sede. Lodge aveva chiesto al suo amico perché il suo governo aveva ritenuto che valesse la pena mantenere una missione così grande «in un posto che non sembrava interessargli molto». Il diplomatico, in modo appropriato, rispose: “Noi non vogliamo trascurare nulla”. Dopo un anno come ambasciatore americano alla Santa Sede, ho visto tanto e spero di non aver trascurato nulla. Il Vaticano è un alveare di idee, di informazioni, di intrighi, di collaborazioni e di attività diplomatiche a livello mondiale. Alla nostra ambasciata noi non vendiamo merce o rilasciamo visti, ma assieme a questo piccolo Stato con un campo d’azione mondiale noi lavoriamo per risolvere i grandi problemi del nostro tempo. Sia la nostra ambasciata che la Santa Sede hanno una visione generale del mondo; i nostri obiettivi comuni sono di grande portata e spesso richiedono soluzioni di lungo termine. Gli Stati Uniti e la Santa Sede qualche volta possono anche essere in disaccordo sui mezzi per raggiungere questi obiettivi, ma siamo invece totalmente d’accordo sugli obiettivi finali: libertà, pace e creazione di opportunità. Quando il nostro primo ambasciatore, William A. Wilson, presentò le proprie credenziali a papa Giovanni Paolo II nell’aprile del 1984, egli disse: “I principi su cui fu fondata la nostra Repubblica e che continuano a guidare la nostra condotta nazionale, sono principi strettamente paralleli a quelli della Santa Sede”. Ora l’impostazione conciliare del pontificato di Francesco emerge anche dalla sua linea di geopolitica della misericordia.

L’idea di Chiesa

Nei documenti del Concilio Vaticano II, la Chiesa povera per i poveri auspicata da Francesco non appare in modo così evidente e compiuto. Anche se, come mostra un libro di Joan Planellas Barnosell (La chiesa dei poveri. La sfida sempre attuale del Vaticano II), questo tema ha percorso tutto il dibattito conciliare. Se ne trova traccia qua e là nei testi. Papa Roncalli parlava di una Chiesa di tutti, particolarmente dei poveri. Comunque già alla fine del primo capitolo della Lumen Gentium troviamo un paragrafo che contiene quella teologia che in Bergoglio prenderà la forma di un aspetto essenziale del vivere della Chiesa. È, infatti, evidente a tutti come Francesco voglia vivere e testimoniare la Chiesa povera per i poveri, sui cui il Concilio aveva posto l’attenzione. Lo ha fatto scegliendo di vivere a Santa Marta. Lo fa parlando continuamente dei poveri, della cultura dello scarto così diffusa nella nostra società, della necessità di “toccare la carne” dei poveri e non solo di aiutarli tenendoli a distanza. Proprio parlando dei poveri emerge l’idea conciliare del popolo, a cui tutti possono appartenere. È quanto dice Francesco nella Evangelii Gaudium quando parla dell’inclusione dei poveri. Per la Chiesa, scrive papa Bergoglio, l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. “Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti si lascino evangelizzare da loro”.

L’inclusione dei poveri nella comunità

Non si tratta solo di assistere i poveri né l’esercizio della carità nei loro confronti è un problema della Caritas e o dei volontari. L’amore per i poveri e la loro inclusione nella comunità, nel rispetto delle differenze, si pone come una dimensione costitutiva dell’essere cristiano. Senza dubbio qui Francesco porta a compimento un aspetto del vivere della Chiesa che diventa fondamentale per il suo stesso esistere e configurarsi come porta aperta a tutti, e particolarmente ai poveri. È stato anche il senso dell’Anno Santo della Misericordia. “Chiesa povera” e «Chiesa dei poveri». Due parole chiave che hanno stentato a trovare spazio significativo sia nello stesso Concilio che nella Chiesa postconciliare. In Concilio, nel corso della concelebrazione orientale del 13 novembre 1964, la sedia gestatoria, già pronta, fu ignorata da Paolo VI. Il cardinale Felici, a conclusione, dichiarò: “Durante il Concilio sono state dette molte cose sulla povertà. La Chiesa è veramente la madre dei poveri e il Papa ha deciso di darne una nuova testimonianza donando la sua tiara per i poveri”. Lo stesso Paolo VI portò sull’altare la tiara della sua incoronazione. Anche un gruppo di circa 50 vescovi, con almeno 500 altri simpatizzanti, diede vita a un testo nel quale essi s’impegnavano a rinunziare “per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi”. Ora Papa Francesco sta di nuovo richiamando rievocando, ridestando, risvegliando tutti alla centralità di una “Chiesa povera per i poveri”. Infatti, solo una Chiesa povera potrà camminare con i poveri, facendosi voce dei loro diritti negati; si tratta di poveri non solamente in senso economico, ma in ognuno dei sensi con cui la Sacra Scrittura determina la categoria, a partire da Maria Vergine, fino a tutti coloro ai quali è rivolto l’annuncio del Regno.

Percorrere le strade del mondo

La “conversione ecclesiale”, invocata da moltitudini di credenti sempre più amareggiati dal potere capitalista e dalla realtà di una Chiesa gerarchica e monocratica, ricca di denaro e povera di profezia, è una speranza che, per molti, viene collegata alle scelte di Bergoglio. Egli visitando Assisi, e in particolare la sala della spoliazione, ha detto di desiderare una chiesa umile, inquieta, accanto agli ultimi, non narcisista né autoreferenziale, soprattutto non ossessionata dall’attaccamento a qualunque forma di potere. Del resto, già l’eredità primaria di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, entrambi protagonisti al Concilio, è quella della missione presente a chiare lettere in Lumen Gentium 8. Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Altro punto qualificante dell’ecclesiologia conciliare dei due predecessori di Papa Francesco è la concezione della Chiesa quale comunione di chiese. Questo comporterà, per Bergoglio un mutamento di quell’equilibrio istituzionale che, nella chiesa latina, si è consolidato soprattutto nel secondo millennio della sua storia. Ricercare ciò che ci unisce prima ancora di quello che divide; prendere su di sé i segni del Misericordioso, prima ancora di quelli del Giudice: anche questo è un richiamo spesso ascoltato nell’ultimo Concilio, soprattutto dalla voce di colui che lo volle, Giovanni XXIII, e poi dai suoi successori. Francesco, infatti, ha celebrato Karol Wojtyla definendolo un “gigante della fede”, come lo definì Ratzinger al momento della beatificazione, annuendo sulla possibilità di usare l’appellativo di “magno” per il papa venuto dall’est europeo. Prima di percorrere le strade del mondo, secondo la celebre definizione di Bergoglio, Karol Wojtyla è cresciuto al servizio di Cristo e della Chiesa nella sua Patria, la Polonia. Lì si è formato il suo cuore, cuore che poi si è dilatato alla dimensione universale, prima partecipando al Concilio Vaticano II, e soprattutto dopo il 16 ottobre 1978, perché in esso trovassero posto tutte le nazioni, le lingue e le culture.

Il soffio del Concilio

Il soffio del Vaticano II nel mondo Papa Bergoglio parla spesso del “rinnovamento voluto dal Concilio ecumenico Vaticano II”, assecondato da Giovanni XXIII, da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ed ha parlato di “gioia speciale per il fatto che la canonizzazione di papa Roncalli sia avvenuta assieme a quella del beato Giovanni Paolo II, che tale rinnovamento ha portato avanti nel suo lungo pontificato”. Inoltre, papa Bergoglio richiama frequentemente la necessità di programmi pastorali, per esempio di preparazione matrimoniale (anche sotto la spinta dei due Sinodi dedicati alla famiglia), basati sugli insegnamenti specifici di Giovanni Paolo II, che “si stanno rivelando strumenti promettenti e anzi indispensabili per comunicare la verità liberatrice sul matrimonio cristiano e stanno ispirando ai giovani una nuova speranza per sé e per il loro futuro come mariti e mogli, padri e madri”.