L’appello del Papa per i Rohingya perseguitati in Myanmar

“Nessuno impara a sperare da solo”. Papa Francesco ha proseguito la sua catechesi sulla speranza affrontando l’aspetto comunitario ed ecclesiale di questa virtù. Riflettendo su un passo della prima lettera di S. Paolo ai Tessalonicesi, il S. Padre ha sottolineato a braccio come occorre “aiutarci a vicenda, ma non solo nei bisogni, nei tanti bisogni della vita quotidiana ma aiutarsi nella speranza, sostenersi nella speranza”. A cominciare da chi ha la “responsabilità e la guida pastorale” non perché siano migliori degli altri, ma in forza di un ministero divino che va ben al di là delle loro forze”. Poi il Papa ha insistito sulla necessità di prestare maggior cura a quanti “rischiano maggiormente di perdere la speranza, di cadere nella disperazione. Noi – ha proseguito ancora a braccio – sempre abbiamo notizie di persone disperate che fanno cose brutte, la “disesperanza” li porta a fare cose brutte”.

Chissà se il Pontefice aveva in mente anche il precario di 30 anni che a Udine ieri si è tolto la vita perché “stufo di sopravvivere”. In ogni caso il Papa ha fatto “riferimento è a chi è scoraggiato, a chi è debole, a chi si sente abbattuto dal peso della vita e delle proprie colpe e non riesce più a sollevarsi. In questi casi, la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono assumere la forma squisita della compassione, che non è – ha detto ancora a braccio – avere pietà, la compassione è patire con l’altro, è soffrire con l’altro, è fare una carezza ma che viene dal cuore. La speranza cristiana non può fare a meno della carità genuina e concreta”. La conseguenza è che la “testimonianza” di chi vive la speranza cristiana “non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore anche al di fuori, nel contesto sociale e civile, come appello a non creare muri ma ponti, a non ricambiare il male col male, a vincere il male con il bene, l’offesa con il perdono. Un cristiano – ha sottolineato Francesco – mai può dire “me la pagherai”, questo non è un gesto cristiano. L’offesa si vince col perdono. Questa è la Chiesa!”.

Il Pontefice ha poi ripreso un concetto già espresso la scorsa settimana: “Tanti nostri fratelli e sorelle ci hanno insegnato a sperare (…) E tra questi, si distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli emarginati. Sì, perché non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere, spera solo nel suo benessere – ha detto ancora a braccio – e quello non è speranza, è sicurezza relativa. Non conosce la speranza chi si chiude nel proprio appagamento, chi si sente sempre a posto”. “Chi spera – ha concluso il Papa – spera di sentire un giorno questa parola: Vieni, vieni da me fratello, vieni da me sorella, per tutta l’eternità. Se, come abbiamo detto, la dimora naturale della speranza è un “corpo” solidale, nel caso della speranza cristiana questo corpo è la Chiesa, mentre il soffio vitale, l’anima di questa speranza è lo Spirito Santo. Se non è facile credere, tanto meno lo è sperare. Ma quando lo Spirito Santo abita nei nostri cuori, è Lui a farci capire che non dobbiamo temere”.

Al termine dell’udienza il S. Padre, oltre a ricordare la beatificazione di Justo Takayama Ukon, il “samurai di Cristo”, e la ricorrenza, sabato, della giornata del malato, con l’invito “a pregare, per intercessione della nostra Santa Madre, per tutti gli ammalati, specialmente per quelli più gravi e più soli, e anche per tutti coloro che se ne prendono cura”, ha fatto cenno all’odierna celebrazione della “Giornata di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, quest’anno dedicata in particolare a bambini e adolescenti. Incoraggio tutti coloro che in vari modi aiutano i minori schiavizzati e abusati a liberarsi da tale oppressione. Auspico che quanti hanno responsabilità di governo combattano con decisione questa piaga, dando voce ai nostri fratelli più piccoli, umiliati nella loro dignità. Occorre fare ogni sforzo per debellare questo crimine vergognoso e intollerabile”. Poi il Papa ha ricordato che la giornata “si celebra oggi perché è la festa di s. Giuseppina Bakhita. Questa ragazza schiavizzata in Africa, sfruttata, umiliata non ha perso la speranza e portò avanti la fede e finì per arrivare come migrante in Europa e lì sentì la chiamata del Signore e si fece suora. Preghiamo S. Bakhita per tutti i migranti, i rifugiati, gli sfruttati che soffrono tanto, tanto… E parlando di migranti cacciati via, sfruttati, vorrei pregare con voi in modo speciale per i nostri fratelli e sorelle Rohingya cacciati via dal Myanmar… Vanno da una parte all’altra… sono gente buona, pacifica… non sono cristiani, sono buoni sono fratelli e sorelle nostri e da anni soffrono, sono stati torturati, uccisi semplicemente per portare avanti le loro tradizioni, la loro fede musulmana… preghiamo per loro” ha concluso il Papa, invitando a recitare un Padre nostro.