La necessità di una cooperazione con l'Africa

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Si celebra oggi la Giornata mondiale del rifugiato. Secondo le stime dell’Agenzia dell’Onu (Unhcr) pubblicate ieri in un rapporto, alla fine del 2017 erano 68,5 milioni le persone nel mondo costrette a fuggire dal proprio Paese; di questi, 25.4 milioni sono i rifugiati che hanno lasciato il proprio paese a causa di guerre e persecuzioni, 2.9 milioni in più rispetto al 2016, l’aumento maggiore registrato dall’Unhcr in un solo anno. Nel frattempo, i richiedenti asilo che al 31 dicembre 2017 erano ancora in attesa della decisione in merito alla loro richiesta di protezione sono aumentati da circa 300.000 a 3,1 milioni.

Un quadro drammatico, senza precedenti. In Terris ne ha parlato con Daniela Pompei, docente in Scienze Sociali, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi agli immigrati, rifugiati e rom, promotrice dei “corridoi umanitari”.

Qual è la reale situazione in Africa? Come si combatte efficacemente la tratta?

“In Africa ci sono una serie di Paesi che soffrono per la guerra, per situazioni di violenza generalizzata o per dittature. Per esempio l’Etiopia ha sul suo territorio circa 800.000 profughi, soprattutto sud sudanesi, somali ed eritrei. Il Congo sta esplodendo, con 625.000 profughi in meno di due mesi a causa degli scontri che stanno aumentando. C’è poi la situazione della Libia, che storicamente è stato un polo di attrazione per lavoratori stranieri: sul suo territorio c’erano un milione e mezzo di migranti africani, soprattutto egiziani, ma anche pakistani e bengalesi. Con la primavera araba e la rivoluzione tutto ciò si è polverizzato e alle persone che si trovavano già lì si sono aggiunti quanti passavano e passano attraverso la Libia per raggiungere l’Europa. Su questo substrato si è innestata negli ultimi anni la piaga del traffico di esseri umani, con i beduini che comprano e vendono uomini e donne. L’Unhcr e l’Iom (Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) sono entrati in alcune zone della Libia e stanno facendo dei trasferimenti di persone molto vulnerabili in Niger e allo stesso tempo si stanno effettuando dei rimpatri assistiti. Si tratta di circa 25.000 persone, in Mali, Nigeria, Guinea, Costa d’Avorio. La situazione è comunque incandescente. Quanto ai trafficanti c’è tutto il dramma delle donne, in particolare nigeriane. La Comunità di S. Egidio lavora tantissimo per aiutare queste donne, così come altre realtà, penso alla Comunità Papa Giovanni e ad altre religiose. I racconti di chi giunge dalla Libia sono purtroppo noti e terribili, di gente torturata e donne violentate”.

I corridoi umanitari sono una soluzione di fronte alla massa di disperati che premono sulle frontiere dell’Europa?

“Sono una delle risposte. I flussi sono complessi, perché ci sono profughi e rifugiati ma c’è anche chi scappa dalla fame o dai disastri naturali, dal deserto, come i senegalesi. Perciò è necessario avere una pluralità di risposte. I corridoi umanitari hanno introdotto un sistema legale di ingresso per potenziali richiedenti asilo. Questo è molto importante, come pure il fatto che non è stato necessario cambiare la legge. E’ una risposta possibile, ce ne sono altre, andrebbero introdotte altre vie legali di ingresso, anche per chi cerca di venire per motivi economici. Basterebbe fissare delle quote. Si potrebbero esaminare queste persone nei Paesi di transito o nei Paesi di origine attraverso le ambasciate. C’è poi il discorso del reinsediamento per coloro che sono già conosciuti dall’Unhcr. L’esperienza dei corridoi umanitari ha dimostrato attraverso la collaborazione di tante associazioni e realtà ecclesiali cristiane che è possibile una sinergia con le istituzioni, i governi per trovare una via legale di ingresso che possa poi favorire anche l’integrazione”.

La situazione delle Ong nel Mediterraneo: il ministro Salvini ha detto che accanto ai volontari ci sono anche molti che fanno affari. Qual è il suo parere?

“In mare il primo obiettivo deve essere salvare vite umane. Le Ong insieme alla Guardia Costiera e a navi mercantili ne salvano molte. Dal 2014 all’inizio del 2018 sono morte o disperse nel Mediterraneo più di 17.000 persone. Troppe, malgrado l’intervento di chi cerca di salvarle. Penso che bisogna trovare un modus operandi che coinvolga i Paesi dell’Unione Europea. E’ chiaro che non possono essere soli quelli della sponda del Mediterraneo come l’Italia o la Grecia ad aver il carico di chi arriva attraverso il mare e quindi è vero che è necessario chiedere la solidarietà dei Paesi dell’Unione. Negli ultimi due anni c’è stata una grande diminuzione di arrivi perciò i numeri non sono poi così terribili se vengono divisi tra tutti”.

L’Italia, però, di fatto è stata lasciata sola. Ritiene giusta la fermezza del nuovo governo nei confronti dell’Europa?

“Credo che sia necessario che ogni Paese faccia la sua parte. Tutta l’Europa insieme può fare molto di più, perché siamo di fronte a un fenomeno epocale e dunque serve una risposta comune. E’ bene dialogare con tutti, è bene anche ribadire che è necessaria la solidarietà tra vari Paesi. In questo senso è importante comunicare. Ciò non toglie che ci siano responsabilità italiane perché siamo un Paese frontaliero e dobbiamo salvare vite umane e, dove possibile, anche accoglierle”.

A proposito di accoglienza, è possibile fare meglio?

“Direi più che altro che si può migliorare l’integrazione. Per la prima accoglienza bisogna riconoscere che l’Italia ha fatto molto. Un sistema strutturato che deriva dagli anni Novanta, quando ci fu il consistente flusso di albanesi. Andrebbe potenziato un sistema che consenta la disseminazione su tutto il territorio con numeri più piccoli per favorire l’integrazione. In questo è positiva l’esperienza dei corridoi umanitari: dopo due anni di collaborazione con associazioni, realtà parrocchiali, singoli, possiamo dire che può essere un buon modello perché quanti sono giunti con i corridoi sono stati suddivisi in tantissimi comuni e quando c’è una famiglia, o gruppi di 10-12 persone al massimo da aiutare nel percorso di inserimento, è tutto più semplice”.

Quali strategie dovrebbero attuare l’Italia e l’Europa di fronte al dramma dei profughi? Il presidente del Parlamento europeo Tajani ha più volte parlato della necessità di un “piano Marshall” per l’Africa.

“Ritengo anch’io che sia necessario fare un discorso forte per i Paesi africani. Che vuol dire una cooperazione seria, pensata, che non abbia solo come obiettivo non far partire le persone. Deve essere una cooperazione che sostenga la creazione di lavoro, le economie, i governi africani che si rendano più disponibili. Trovare un sistema che sia una cooperazione stabile. E’ importante e necessario coinvolgere i Paesi africani, primi protagonisti del fenomeno migratorio, con un aiuto sostanzioso. Noi abbiamo come esempio proprio l’Albania: nel 1991 l’Italia è stato il Paese più coinvolto dalla migrazione e abbiamo fatto un’azione di cooperazione molto consistente. Per dieci anni c’è stato tutto un lavoro, accanto al controllo dell’immigrazione, con l’impegno degli imprenditori italiani o nel settore sanitario. Un discorso di ampio respiro che ha avuto conseguenze molto pratiche: in Italia oggi ci sono circa 500.000 albanesi di cui nessuno si rende più conto. Sono ben inseriti, lavorano e una parte degli immigrati è tornata da imprenditore in Albania”.