Il “no deal” preoccupa anche la Chiesa d'Inghilterra

Se l'intento di Boris Johnson era quello di spiazzare tutti i vertici istituzionali inglesi, c'è riuscito solo in parte. Se sul piano politico la mossa di chiudere il Parlamento fino al 14 ottobre lo mette pressoché al riparo da qualsiasi azione delle opposizioni, compresa una mozione indicativa, su altri ambiti la situazione sembra meno fluida per il premier del Regno Unito che, forse per un errore di calcolo, rischia di trovare sulla sua strada verso il no deal una barricata alzata nientemeno che dalla Chiesa d'Inghilterra. Non che i vescovi britannici siano scesi politicamente in campo, sia chiaro: la contro-mossa dei prelati si è tradotta in una lettera fatta pervenire a Downing Street, nella quale 25 di loro esprimevano le loro preoccupazioni in merito a una possibile uscita dal Regno Unito senza accordo, un'eventualità che potrebbe a loro giudizio ripercuotersi “sulle fasce di cittadinanza meno resistenti agli choc economici”. In sostanza, la Chiesa ingelse si dice preoccupata per i più poveri, i lavoratori più vulnerabili che potrebbero risentire in modo drammatico delle conseguenze di una Brexit senza l'agognato “deal”.

Il ruolo dell'arcivescovo Welby

Del resto, la lettera aperta dei vescovi inglesi non è il primo coinvolgimento, seppure finora esso sia stato molto limitato, della Chiesa d'Inghilterra nell'ambito della questione Brexit. Negli ultimi giorni, infatti, anche l'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, è sceso in campo (o meglio, è stato fatto scendere), richiesto a gran voce come figura ideale per presiedere il forum dei cittadini sulla Brexit. Un incarico che il prelato ha accettato a condizione che non diventasse “un cavallo di Troia” per ritardare o fermare il percorso dell'uscita dal Regno Unito, cercando di tracciare la linea guida del confronto: “Il bisogno di una riconciliazione nazionale è essenziale, e servirà tempo, è un grande impegno per il bene comune. C’è bisogno dell’aiuto di tutti. Gesù è fonte di unione e ricongiungimento per l’individuo e la società”. Una dichiarazione che ai più euroscettici non è piaciuta, anche perché nei giorni precedenti avevano più volte auspicato che il capo della Chiesa inglese (non considerando la regina) non si immischiasse in questioni di politica. La discesa in campo, limitata ma comunque influente, di Welby ha combaciato con un fronte di opposizione improvvisamente più compatto, che ha tentato di far fronte alla possibilità di una hard Brexit provando a giocarsi la carte del rinvio della scadenza (prevista il 31 ottobre). Nemmeno il tempo di pensarlo, però, che Johnson ha sorpreso tutti mettendo i lucchetti alla Camera dei Comuni, imbavagliando il Parlamento per un lasso di tempo utile ad arginare qualsiasi azione in termini minatori per l'idea del no deal.

La lettera dei vescovi

Da qui, l'allarme dei vescovi inglesi, che non hanno esitato nel manifestare la propria preoccupazione in vista di un ulteriore mese di stop dei lavori in Parlamento e, nondimeno, per aver riscontrato segnali poco incoraggianti di “divisione” in ogni parte d'Inghilterra: “I leader devono essere onesti in merito ai costi delle scelte politiche – hanno scritto -, specialmente per quelli più vulnerabili“, avvertendo poi che il confine irlandese “non è un semplice totem politico” e che “la pace in Irlanda non è una palla che deve essere presa a calci dagli inglesi“, specificando inoltre come “la sovranità del parlamento non sia solo un termine vuoto”. E ancora: “Le chiese servono comunità di ogni forma, dimensione e carnagione. Continuiamo a servire, indipendentemente dalla persuasione politica. Invitiamo i politici a prestare attenzione con noi alle preoccupazioni che registriamo sopra e incoraggiare un recupero del dibattito civile e della riconciliazione”. Un rischio, quello del no deal, che non lascia indifferente nemmeno la Chiesa di Scozia: “Quest'ultima mossa, apparentemente cinica, sembra un passo nella direzione opposta, che aumenta il rischio che il Regno Unito si schianti fuori dall'UE in un modo che causerà danni reali alle nostre comunità e al nostro benessere condiviso”. In sostanza, se il Regno Unito dovesse davvero arrivare a un'uscita senza accordo, sembra concreto il rischio che anche le frontiere interne inizino a ribollire.