Il monito del Papa: “In guardia dalla religione dell'io”

Una parabola incentrata su due figure ma una riflessione che ne richiama anche una terza, da affiancare a quelle del fariseo e del pubblicano consegnate dal Vangelo odierno: quella del povero. E' un personaggio centrale quello che Papa Francesco analizza attraverso la sua forma di preghiera nella Santa Messa che chiude il Sinodo sull'Amazzonia. Ma anche in merito ai due protagonisti della parabola evangelica la riflessione del Pontefice si snoda sulle differenti modalità del pregare. “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”, così comincia la preghiera del fariseo: “Si vanta perché adempie al meglio precetti particolari. Però dimentica il più grande: amare Dio e il prossimo”. Questo personaggio, “traboccante della propria sicurezza, della propria capacità di osservare i comandamenti, dei propri meriti e delle proprie virtù, è centrato solo su di sé. Il dramma di questo uomo è che è senza amore”. E le cose migliori, senza amore, “non giovano a nulla”. Ecco perché, alla fine, “anziché pregare, elogia se stesso… Sta nel tempio di Dio, ma pratica un’altra religione, la religione dell’io. E tanti gruppi 'illustri', 'cristiani cattolici', vanno su questa strada“.

La religione dell'io

Il fariseo, “oltre a Dio dimentica il prossimo, anzi lo disprezza… i ritiene migliore degli altri, che chiama, letteralmente, 'i rimanenti, i restanti'”. E, ha ammonito il Papa, “quante volte chi sta davanti, come il fariseo rispetto al pubblicano, innalza muri per aumentare le distanze, rendendo gli altri ancora più scarti… Quante presunte superiorità, che si tramutano in oppressioni e sfruttamenti, anche oggi. Gli errori del passato non son bastati per smettere di saccheggiare gli altri e di infliggere ferite ai nostri fratelli e alla nostra sorella terra: l’abbiamo visto nel volto sfregiato dell’Amazzonia”. La religione dell’io, quindi, “continua, ipocrita con i suoi riti e le sue 'preghiere', dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io. Possiamo guardarci dentro e vedere se anche per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole. Preghiamo per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi”.

La preghiera che attraversa le nubi

Decisamente diverso, e illuminante su “cosa è gradito a Dio”, è il modo di pregare del pubblicano: “Egli non comincia dai suoi meriti, ma dalle sue mancanze; non dalla sua ricchezza, ma dalla sua povertà: non una povertà economica ma sente una povertà di vita… Quell’uomo che sfrutta gli altri si riconosce povero davanti a Dio e il Signore ascolta la sua preghiera, fatta di sole sette parole ma di atteggiamenti veri”. Una preghiera trasparente, che nasce dal cuore e che lo mette davanti a Dio. Perché “pregare è lasciarsi guardare dentro da Dio, senza finzioni, senza scuse, senza giustificazioni. Tante volte ci fanno ridere i pentimenti pieni di giustificazioni. Più che un pentimento sembra una auto-canonizzazione. Perché dal diavolo vengono opacità e falsità, da Dio luce e verità, la trasparenza del mio cuore”. Osservando la preghiera del pubblicano, capiamo “da dove ripartire: dal crederci bisognosi di salvezza, tutti. È il primo passo della religione di Dio, che è misericordia verso chi si riconosce misero. Invece, la radice di ogni sbaglio spirituale, come insegnavano i monaci antichi, è credersi giusti. Ritenersi giusti è lasciare Dio, l’unico giusto, fuori di casa”. E la preghiera del povero si inserisce in questo: “Mentre la preghiera di chi si presume giusto rimane a terra, schiacciata dalla forza di gravità dell’egoismo, quella del povero sale dritta a Dio… Sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza”. Le voci dei poveri ascoltate nel Sinodo, hanno concesso l'occasione “di riflettere sulla precarietà delle loro vite, minacciate da modelli di sviluppo predatori. Eppure, proprio in questa situazione, molti ci hanno testimoniato che è possibile guardare la realtà in modo diverso, accogliendola a mani aperte come un dono, abitando il creato non come mezzo da sfruttare ma come casa da custodire, confidando in Dio”.