Ecumenismo: cosa possono imparare i cattolici

La celebrazione dei Vespri presieduta da Papa Francesco nella Basilica di S. Paolo fuori le mura conclude oggi la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani. Ostacoli, progressi, prospettive dell'ecumenismo: In Terris ne ha parlato con don Philip Goyret, ordinario di Ecclesiologia e decano della Facoltà di teologia della Pontificia università della S. Croce.

Il dialogo ecumenico non è allo stesso livello con tutte le confessioni cristiane. Quali sono le principali differenze e i principali ostacoli con ortodossi e protestanti?

“E' corretto dire che il dialogo ecumenico non procede a velocità uniforme. Tra l'altro anche all'interno dei protestanti ci sono varie realtà: luterani, anglicani, riformati e così via, come pure ci sono gli ortodossi in senso stretto ma anche le antiche Chiese orientali: monofisiti, nestoriani eccetera. E' vero che le velocità sono diverse ma non è semplice spiegarlo. Con gli ortodossi la strada è più facile in linea di massima, perché gli elementi in comune sono moltissimi, molti di più che con i protestanti. Però proprio lì le posizioni sono arrivate a una fase di stallo perché sono più inamovibili. Entrambi abbiamo una consapevolezza, cattolici e ortodossi ciascuno a modo suo, di essere la vera Chiesa di Cristo e per questo ulteriori avvicinamenti sono più difficili. Con i protestanti, invece, ci sono più fattori di diversità ma forse proprio per quello l'avvicinamento è stato più rapido. Una questione comune a tutti, comunque, è quella della metodologia del dialogo ecumenico”.

Vale a dire?

“Le questioni sono soprattutto due. Lo scopo finale del dialogo è l'unità visibile della Chiesa. La prima questione è proprio relativa a quale unità stiamo cercando. In casa cattolica diciamo che è quella visibile e invisibile. Visibile perché è riferita a come è strutturata nell'unità di fede, liturgica e gerarchica. Ma questa è già una presa di posizione non necessariamente condivisa: altri sostengono che è sufficiente l'unità invisibile, nella carità, poi ognuno è governato da chi vuole. Il secondo problema è l'interlocutore. I cattolici hanno una struttura di governo in cui la S. Sede rappresenta la posizione della Chiesa, con un magistero condiviso. Questo non esiste né in ambito ortodosso né in ambito protestante. Di conseguenza l'interlocutore dell'altra parte non è sempre ben definito. Questo si nota soprattutto con i protestanti. Ad esempio è stato da poco firmato un importante documento, che si chiama “Growth in Communion”, tra i luterani e i cattolici finlandesi. E' un testo molto buono nel senso che le posizioni si sono avvicinate in temi tradizionalmente conflittuali. Ma io mi domando: è un documento condiviso da altri luterani? Anche nella parte cattolica succede che i documenti firmati da una commissione non sono magistero e dunque c'è una certa diversità di pareri. E' una questione molto articolata. Qualcosa di simile accade con gli ortodossi, dove il patriarca di Costantinopoli è un 'primus inter pares' e non ha una potestà di giurisdizione, termine che in quelle Chiese non è affatto gradito. Anche lì è difficile individuare un interlocutore per tutta l'ortodossia”.

Cosa è cambiato nel dialogo con le Chiese riformate dopo la visita del S. Padre a Lund?

“E' stato un passo che ha determinato un cambiamento molto positivo. In realtà non è che si sia firmato un accordo dottrinale, è un atto molto pragmatico per lavorare insieme su temi comuni contro la povertà, la fame, ecc. Però si è visto che possiamo e dobbiamo lavorare insieme su questi ambiti. Poi c'è stata la comune consapevolezza che la secolarizzazione investe tanto la Chiesa cattolica come quelle luterane e riformate (ma vale anche per gli ortodossi). Perciò se noi cristiani non ci diamo una bella regolata, la secolarizzazione ci mangerà vivi… Poi è stato percepito nel Papa un atteggiamento molto aperto. Teniamo presente che già quando era arcivescovo di Buenos Aires aveva un rapporto con le comunità pentecostali molto diretto. Quindi il S. Padre viene visto come una persona molto aperta che non inciampa su inutili bizantinismi teologici ma va al sodo delle questioni. In fondo la strada ecumenica si può sintetizzare nel tornare all'essenziale”.

E con gli ortodossi?

“Direi che anche con loro c'è stato un grande feeling, fin dall'inizio, da quando il nuovo Pontefice si è affacciato dal balcone di S. Pietro, dalle sue prime parole quando si è presentato come vescovo di Roma, un titolo molto amato nell'ambito del dialogo con gli ortodossi”

Il Papa ricorda spesso la frase di Atenagora a Paolo VI “lasciamo i teologi su un'isola e facciamo l'unità”, così come spesso richiama l'ecumenismo del sangue. Ma non c'è il rischio di privilegiare gli aspetti sociali “annacquando” la dottrina?

“Da teologo difendo un po' la mia categoria… Per me il dialogo teologico è molto importante. Lo si voglia o no, la comunione piena fra cristiani deve fondarsi su una comunione piena nella fede. Altrimenti è una menzogna. Però è vero che i teologi hanno i loro difetti: a volte ci incastriamo in cose per le quali in realtà non vale la pena spendere tante energie. Il Papa va più sulla linea dell'ecumenismo dei martiri, della carità. Ma penso che non lo faccia in alternativa esclusiva. Anzi, in realtà l'ecumenismo dell'azione congiunta se è autentico porta necessariamente all'ecumenismo della teologia, altrimenti resta in un contesto sociologico. Possiamo lavorare insieme ma se ci limitiamo a questo, significa pensare la Chiesa come una specie di Ong”.

Il card. Koch in occasione dell'apertura della Settimana per l'unità dei cristiani a Ginevra ha detto, riferendosi all'Eucarestia, “da lungo tempo desideriamo celebrare insieme” e “verso la quale dobbiamo compiere passi in avanti”. Quali possono essere tali passi?

“Celebrare insieme l'Eucarestia è il traguardo finale. Vorrebbe dire essere arrivati alla piena comunione. Per questo non sono molto amico di quelli che hanno fretta di concelebrare insieme l'Eucarestia perché in fondo è voglia di manifestare una cosa che ancora non è realtà e dunque è un inganno. La questione è molto articolata. Bisogna distinguere tra ortodossi e protestanti. Nel primo caso ci sono già accordi, la 'communicatio in sacris': in determinate condizioni i cattolici possono ricevere la Comunione dagli ortodossi e viceversa. Con i protestanti invece questo non è ancora possibile perché la Chiesa cattolica non ritiene che la Cena del Signore celebrata da riformati, anglicani e luterani sia un'Eucarestia valida secondo la teologia cattolica. E questo ci porta a parlare del ministero”.

Prego.

“E' la madre di tutte le battaglie… Finora abbiamo parlato dei fedeli ma la questione è anche concelebrare l'Eucarestia con ministri di varie Chiese. Il primo aspetto è il riconoscimento nell'altro della validità del suo ministero. Al momento un luterano non diventa ministro attraverso un'ordinazione sacramentale che sia valida secondo la teologia cattolica. Quindi quando celebra la Cena del Signore dal punto di vista cattolico non rende presente sacramentalmente Cristo nelle specie eucaristiche. Questo è un grandissimo ostacolo. Di questo si sta discutendo, ci sono problematiche storiche, è diverso quello che pensano i luterani di oggi da quelli del tempo della Riforma. Nel documento firmato in Finlandia che ho citato prima, ad esempio, ci sono dichiarazioni condivisibili. Altra questione è che ci sia un vescovo che dal punto di vista teologico ed ecclesiologico sia vescovo in senso pieno e che ordini in modo sacramentalmente valido un ministro di una delle confessioni non cattoliche. L'altro requisito per la concelebrazione è che comunque, anche con ministri validi, come nel caso degli ortodossi, ci sia una comunione gerarchica. E' una condicio sine qua non, altrimenti stiamo ingannando. Condivido quindi l'aspirazione del cardinale Koch di arrivare a quel traguardo ma dobbiamo superare prima tutti questi altri ostacoli”.

Il panorama delle Chiese protestanti è molto ampio. Ce ne sono alcune che sembrano piuttosto delle sette. Come si pone la Chiesa cattolica nei loro confronti? Quali sono i pericoli?

“Ovviamente loro non si definiscono così, perché il termine è considerato dispregiativo. Ma è anche molto difficile definire cosa sia una setta, sul piano giuridico, teologico e pastorale. La Chiesa cattolica ha un rapporto diverso con quelle che comunemente vengono chiamate sette rispetto alle Chiese della Riforma, dai cui rami principali sono poi scaturite varie confessioni, come avventisti, metodisti, battisti e così via. Con queste la relazione è pacifica, ci sono dialoghi ufficiali, bilaterali e multilaterali. Con le sette manca invece la volontà di dialogo, nella stragrande maggioranza dei casi. Poi il problema dell'interlocutore valido qui è ancora più acuto proprio perché l'elemento istituzionale è molto più debole. Va sottolineato peraltro che il rapporto con il mondo pentecostale è cambiato in senso favorevole. Va preso atto che sono cresciuti molto di numero e fanno un gran lavoro di evangelizzazione, molto serio e la Chiesa cattolica non può ignorarlo. Molte volte invece le sette non solo sono prive della volontà di un dialogo ma sono molto aggressive. Cosa può fare la Chiesa? E' una domanda da un milione di euro… Non vorrei che la mia risposta fosse interpretata come una sorta di scappatoia spirituale ma ciò che sempre vince è la carità. A volte ci mette un po' di tempo ma alla lunga vince… Vivere la carità, anche eroicamente, la gente non è tonta, lo capisce. Prendiamo l'esempio di quel che fanno le missionarie di Madre Teresa in India, dove si muovono in un contesto multireligioso: sono molto apprezzate proprio perché vivono la carità. Le persone lo comprendono e questo modo di fare le interpella su dove sia il vero Dio”.

Alcune frange di cattolici temono una sorta di “deriva protestante” della Chiesa. Lei vede davvero questo pericolo?

“Vedo quella possibilità ma non necessariamente come un pericolo. Intendo dire che la Chiesa cattolica non può smettere di essere cattolica; ciò non toglie che alcuni elementi cattolici possono risplendere con più luce fuori della Chiesa cattolica, anche in ambito protestante”.

Può spiegarsi meglio?

“Faccio qualche esempio. Primo: la predicazione. Noi pastori cattolici dobbiamo imparare molto dai riformati per predicare meglio. Ci sono ragioni storiche: nei secoli XVIII e XIX si predicava poco o nulla, bastavano i sacramenti. Per la Chiesa riformata la parola ha un ruolo fondamentale. Il Papa nella Evangelii Gaudium dedica molto spazio alle omelie, al modo di prepararle e così via. Secondo: la Bibbia. Conoscenza e diffusione, anche dell'Antico Testamento. E' l'inizio di tutto quindi noi dobbiamo essere cristiani che attingono da quella fonte che è la Parola di Dio tramandata e la dobbiamo padroneggiare in modo più profondo. Terzo: la sinodalità. Dal Concilio abbiamo imparato un po' la collegialità però non basta. Un mio amico ortodosso quando vuole prendermi in giro mi dice 'voi cattolici parlate tanto di collegialità ma la esercitate una volta ogni 100 anni: 20 concili ecumenici in venti secoli di storia'. La sinodalità, amata in ambito ortodosso e riformato ma anche dal S. Padre, è poco esercitata nella Chiesa cattolica. Dovrebbe essere più compresa. Non mi riferisco solo al Sinodo dei vescovi o a quelli diocesani ma alla categoria ecclesiologica: in ciò che riguarda tutti, tutti devono avere voce in capitolo. C'entrano anche la corresponsabilità di tutti i fedeli, il 'sensus fidei' come patrimonio universale e il sacerdozio comune dei fedeli. E' un conto in sospeso nella Chiesa cattolica mentre la sinodalità è più attiva nelle altre confessioni cristiane”.