Dalla paura all'integrazione

A venticinque anni dalla pubblicazione del documento “Ero forestiero e mi avete ospitato“, la Commissione della Cei per le migrazioni ha indirizzato una lettera alle comunità cristiane in cui analizza e invita a riflettere sul fenomeno migratorio, sulle sue trasformazioni e sulle sue sfide per passare dalla paura all'incontro, alla relazione e all'integrazione. Una “parola di aiuto al discernimento comunitario, di stimolo a rendere la nostra fede capace, ancora una volta, di incarnarsi nella storia, di gratitudine e di incoraggiamento a quelle comunità che già hanno accolto”. Il tutto prendendo le mosse dalla domanda di Dio a Caino “Dov'è tuo fratello?” richiamata da Papa Francesco nel suo viaggio a Lampedusa.

La lettera della Cei prende in considerazione prima di tutto i numeri. Nel 1993, anno del precedente documento, l'immigrazione era un fenomeno “nuovo ed emergente, di cui non si riusciva ancora a cogliere le dimensioni e le prospettive. Secondo i dati del Ministero dell’Interno gli immigrati regolari in Italia erano infatti 987.405”. Oggi “l’immigrazione è diventata nel nostro Paese un fenomeno sorprendente nel suo incremento, anche se negli ultimi anni esso si è fermato ed è aumentato invece il numero degli emigranti italiani”. Nel 2016, infatti, gli immigrati in Italia hanno superato “il numero di 5 milioni con un’incidenza sulla popolazione totale pari all’8,3%” con l'arrivo, quell'anno, di oltre “25.000 minori stranieri non accompagnati“. Nel complesso il 22,9% del totale proviene dalla Romania, oltre il 50% proviene da cinque Paesi: Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina. Alla fine del 2017 erano in accoglienza nel nostro Paese 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti. Negli ultimi 3 anni è stabile il numero di immigrati mentre crescono i richiedenti asilo. Parallelamente, continua a crescere il numero di emigranti italiani: “nell’ultimo anno oltre 124 mila italiani hanno spostato la loro residenza oltreconfine; secondo l’OCSE l’Italia è all’ottavo posto nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza dei nuovi immigrati”. A fronte “di 5 milioni di immigrati in Italia, 5 milioni di italiani sono oggi emigranti nei cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita dignitosa”.

La Cei ricorda quindi come l'”immigrazione è una sfida pastorale“, riprendendo il “Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018 di Papa Francesco, in continuità con il Magistero di Papa Benedetto e del Santo Papa Giovanni Paolo II“: “Siamo consapevoli che nemmeno noi cristiani, di fronte al fenomeno globale delle migrazioni, con le sue opportunità e i suoi problemi, possiamo limitarci a risposte prefabbricate, ma dobbiamo affrontarlo con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche. Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza. Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza, perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese”.  “Vogliamo ricordare – aggiunge la Commissione – che il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente”.

Il documento invita poi a guardare al fenomeno migratorio, alla sua complessità e alle domande che suscita come “segno dei tempi“, con “uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada “più lontano” e cerchi di individuare il perché del fenomeno”. “Significa riscoprire la capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire efficacemente, ovunque si trovino, poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, cominciando dai trafficanti di armi fino a quelli di esseri umani“. Ma è anche importante usare un “linguaggio che non giudica e discrimina prima ancora di incontrare”.

Secondo la Cei, “incontrare un immigrato significa fare i conti con la diversità”. Un incontro che può generare paura. “Anzi, due paure si ritrovano a confronto: la mia paura e quella che prova lo straniero. La sua paura è quella di chi è venuto in un mondo a lui radicalmente estraneo, dove non è di casa e non ha casa, un mondo di cui non conosce nulla. La mia è quella di ritrovarmi di fronte ad uno sconosciuto che è entrato nella “mia” terra, che è presente nel “mio” spazio e che, nonostante sia solo, mi lascia intravvedere che forse molti altri lo seguiranno”. Paure legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Ma è necessario un passo avanti: “Le paure si possono vincere solo nell’incontro con l’altro e nell’intrecciare una relazione. E' un cammino esigente e a volte faticoso a cui le nostre comunità non possono sottrarsi, ne va della nostra testimonianza evangelica”. Un cammino che però è ben conosciuto da “quelle comunità e parrocchie che in questi anni hanno deciso in vario modo di accogliere, anche a seguito dell’appello di papa Francesco del settembre 2015, appello che sta ancora producendo i suoi frutti. Per questo è nostra intenzione promuovere nei primi mesi del prossimo anno un meeting di queste realtà di accoglienza”.

Il passo successivo è l'insorgere di una relazione: “non più una semplice conoscenza dell’altro, non più solo un confronto di identità, ma una conoscenza “simpatica” dei valori dell’altro. Un dialogo che non ha come fine l’uniformità, ma il camminare insieme, il ricercare un “con-senso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti”. L’immigrazione, avverte il documento “con le reazioni di rigetto che talvolta suscita, mette in luce un atteggiamento presente nelle società occidentali e che non le è direttamente connesso: il crescente individualismo, che sempre più spesso si manifesta anche fra connazionali e addirittura all’interno delle famiglie”. Lo step conclusivo “è il passaggio più difficile. L’integrazione è un processo che non assimila, non omologa, ma riconosce e valorizza le differenze; che ha come obiettivo la formazione di società plurali in cui vi è riconoscimento dei diritti, in cui è permessa la partecipazione attiva di tutti alla vita economica, produttiva, sociale, culturale e politica, avviando processi di cittadinanza e non soltanto di mera ospitalità”. “L’opera della Chiesa nel campo della mobilità umana – conclude la Cei – non può che essere sussidiaria all’azione dello Stato e delle istituzioni internazionali”