Chiesa in uscita: l'Unitalsi accanto ai malati

Si celebra oggi, in occasione della festa liturgica della Madonna di Lourdes, la XXVI Giornata del malato, istituita da San Giovanni Paolo II. Un'occasione per la Chiesa per fare “memoria della lunga storia di servizio agli ammalati”, come scrive Papa Francesco nel suo messaggio, e riflettere sul servizio ai “malati nel corpo e nello spirito”. Un servizio che vede in prima linea i volontari dell'Unitalsi, l'Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali. In Terris ha intervistato il presidente nazionale, Antonio Diella, 59 anni, Gip presso il Tribunale di Bari, iscritto all'Unitalsi dal 1973, eletto nel 2016 alla guida dell'associazione, incarico che aveva ricoperto per due mandati consecutivi dal 2001 al 2011.

Cosa rappresenta per i volontari Unitalsi la festa della Madonna di Lourdes?

“E’ la festa del nostro inizio. L’associazione è nata sula base dell’esperienza di un pellegrinaggio a Lourdes di un malato a cui è venuta l’idea che quello stesso pellegrinaggio che lui aveva compiuto come ‘privilegiato’ potesse diventare un’esperienza per tutti. Però era necessario che ci fossero dei volontari: persone che si prendessero cura e accompagnassero i malati che volevano recarsi a Lourdes. Per cui per noi è da un lato la festa del ‘re-inizio’, un tornare alle origini, di un’idea molto semplice di dignità, di libertà, di apertura, anche dei pellegrinaggi per chi non poteva uscire, non poteva muoversi, non riteneva nemmeno di poterlo fare. Dall’altro oggi è anche lo spingerci a vivere con sempre maggior autenticità, come Bernadette, questa esperienza di vicinanza e di compagnia anche nella vita quotidiana con le persone ammalate, sole, che soffrono. E’ un richiamo alla vita che dobbiamo fare”.

Sono ancora “di moda” i pellegrinaggi?

Per come lo intendiamo noi, cioè nell’ottica di quante sono le persone che vi partecipano, potremmo dire che è un fenomeno in qualche modo messo in discussione. Ma per il desiderio che la gente ha di trovare una risposta di felicità, per la volontà di muoversi, di andare verso luoghi dove l’esperienza di vita e di comunicazione col Cielo si fa più vera, il pellegrinaggio non è fuori moda. Si sta ridisegnando, c'è maggiore sobrietà, si sta distaccando dall'idea di legarvi contemporaneamente visite a luoghi turistici, o altro. C’è una richiesta di bellezza e di purezza del pellegrinaggio: questo non passa di moda, come non passa di moda l’esperienza di Dio. Certamente dal punto di vista numerico nel complesso, almeno in Italia, si è ridimensionato, anche per questioni di natura economica e per una diminuzione del lancio che veniva dalle esperienze ecclesiali. Ma il cuore dell’uomo è pellegrino e non lo si ferma, deve andare verso la sorgente a cui è chiamato”.

Cosa significa stare accanto a un malato, specialmente a quelli più gravi?

“Significa imparare innanzitutto che il volontario non dà delle risposte di senso al perché della sofferenza. Può testimoniare una bellezza di vita nella sofferenza, può porsi accanto a chi soffre perché possa sviluppare dignità, possa vivere anche la libertà di decidere come trascorrere le giornate, la libertà del suo rapporto con Dio. I volontari non devono offrire soluzioni come se le potessero trarre da un libro di risposte già fatte. Il volontario può stare accanto alla persona ammalata, pregare con lui, vivere con lui, giocare con lui, affrontare con lui la sofferenza (che però non è la sua) ma non deve avere la pretesa di essere la risposta. Il volontario deve imparare anche a stare in silenzio, spesso. Perché in quel silenzio passa comunque la comunicazione di una vicinanza umana, anche nella preghiera, che è ciò che spesso aiuta i malati ad avere una vita che vale la pena di vivere. È finito il tempo in cui potevamo dare risposte al limite dell’assurdo tipo 'Dio ti ha voluto bene per questo…'. Non è così, non dobbiamo dare questo genere di risposte. Il volontario deve essere rispettoso della sofferanza, non avere la pretesa di spiegarla. Così nel rapporto con Dio deve rispettare anche, a volte, il combattimento che il malato fa con Dio perché quella del volontario è una testimonianza di pace, di bellezza, ma sarà il malato a dover vivere in prima persona questa relazione.”

Lourdes ha una lunga storia di miracoli ma non ci sono solo le guarigioni fisiche: qual è la sua esperienza?

“Posso dire che Lourdes è un luogo di miracolo continuo per la vita delle persone. Ho visto tante persone, ma anche me stesso, avere da Lourdes il miracolo della possibilità di una vita che avesse un senso, un compito, che potesse sentirsi importante perché riusciva a costruire una felicità per me e per gli altri. Tanta gente è venuta e continua a venire a Lourdes portandosi dietro grandi problemi, sofferenze, senso di inutilità, stanchezza: quella grotta ha questa grande capacità, permettere un incontro con la speranza, a tutti, anche a chi meno se lo aspetta. Lourdes è ancora un luogo di guarigione ma quelle fisiche non fanno altro che rimandarci a quella grande guarigione che è la scoperta del senso della vita, che viene dall’esperienza di Dio in Maria e in Bernadette, che ci ricorda sempre che Dio sceglie chi si pone davanti a lui senza arroganza ma aspettando un segno. E Lourdes questo segno lo dà, nell’amicizia dei volontari, nella presenza di tanti malati che sorridono, nel desiderio della gente di fare qualcosa per l’altro. Sono tutti segni che Lourdes amplifica e purifica nella loro bellezza. Questo è un miracolo continuo. Sono 160 anni di miracoli e ci aspettiamo veramente che questo sia un anno di festa, pieno di miracoli del cuore”.

Papa Francesco parla spesso di Chiesa in uscita, di ospedale da campo: come si traduce questo concretamente per l'Unitalsi?

“Per noi significa un presenza diffusa accanto ai malati, nell’attenzione a ciò di cui hanno bisogno ora, non ci vogliamo inventare i bisogni dei malati di domani. La gente vive adesso. Questo significa l’attenzione domiciliare, ai malati che hanno bisogno di essere accompagnati quotidianamente nei loro gesti ordinari di vita, stare vicino agli anziani soli e sofferenti che spesso perdono la dignità delle cose ordinarie perché proprio non ce la fanno e non c’è nessuno con loro; direi un’attenzione semplicemente ordinaria. Poi c'è il rilancio del progetto per i piccoli, dell’accoglienza dei bambini e dei loro genitori nelle case, gestite da noi o in collaborazione con altre associazioni, quando le famiglie si spostano verso i grandi ospedali pediatrici in Italia. E ancora la collaborazione internazionale: abbiamo un progetto per bambini disabili a Betlemme, caratterizzato da una presenza continua di volontari dell’Unitalsi accanto alle suore che hanno accolto bambini con grandi handicap che non voleva nessuno. Poi i trasporti: portiamo tanti malati a far visite, alla posta… La vita ordinaria di quanti soffrono è più difficile di quanto sembri se nessuno la condivide”.

Pochi giorni fa è morta la prima persona in Italia che grazie al biotestamento ha scelto di interrompere le terapie. Da volontario che è quotidianamente a contatto con la sofferenza e da giurista, qual è il suo parere?

“Dobbiamo avere molto rispetto. Le cose non si risolvono con i giudizi teorici o imponendo giudizi morali. Dobbiamo imparare a stare accanto a persone con grande sofferenza che molto spesso diventa insopportabile perché sei solo, non hai nessuno. Allora dovremmo innanzitutto imparare tutti noi, me compreso, che abbiamo questo valore sacro, che non vuol dire necessariamente divino, perché se uno non crede in Dio è inutile che glielo dico, ma sacro perché è il valore che è prima di ogni altra cosa: dovremmo imparare a rispettare il valore della vita e la vita delle persone. A parlare di meno, che non vuol dire stare zitti, ma a non dire frasi che spesso risultano inutili e vuote e ad amare di più la vita delle persone, a testimoniare questo nostro insopprimibile desiderio che la vita sia tutelata sempre, anche nel dolore. Imparare a non parlare della sofferenza degli altri, come se fosse la nostra. Poi dal punto di vista giuridico c’è molto da approfondire, la legge non è così perfetta come sembra. Però non dobbiamo limitarci a fare battaglie ‘parlate’, dobbiamo imparare a condividere la vita, e a rispettare le persone, a non accusare nessuno di gesti ‘omicidiari’ ma a dire semplicemente la verità: ricordare che il valore della vita è ‘il’ valore, al di sotto del quale c’è tutto il resto. E' comprensibile poi la ricerca continua che il dolore finisca, che venga combattutto con tutto quello che è possibile fare, perché la gente quando soffre soffre sul serio, non è una teoria e credo che per i cristiani anche la sofferenza di Gesù insegni ad avere rispetto della sofferenza e ad accogliere la vita sempre fin quando è possibile. La Chiesa ha parlato chiaro sull’accanimento terapeutico, non è una novità, anche se qualcuno sembra stupirsi, è la posizione di sempre. Forse non abbiamo avuto a volte il coraggio di raccontarcela, questa posizione, di capirla. E’ il tempo per noi ora di riflettere e di testimoniare la bellezza, la grandezza e l’insopprimibilità della vita”.


                       Antonio Diella, presidente nazionale Unitalsi