Inferno in famiglia, genitori condannati

Cinghiate sotto le piante dei piedi, frustate alle mani con il filo elettrico. Il nuovo film dell'orrore non riguarda migranti schiavizzati o giovani donne costrette a prostituirsi. Si tratta di assurdi maltrattamenti in una famiglia di egiziani che vive a Torino. E ad infliggere simili vessazioni sarebbero stati i genitori, almeno secondo il tribunale che ha condannato padre e madre a tre anni e mezzo di carcere. “Nella mia lunga carriera ho affrontato pochi casi tanto gravi” ha detto il pubblico ministero di Torino, Dionigi Tibone, per descrivere la terribile vicenda di quattro fratelli di origine egiziana maltrattati e umiliati dai genitori.

Il processo è nato dopo la denuncia di una delle figlie. “Piuttosto che tornare a casa mi uccido”, aveva confidato a una insegnante. I quattro ragazzi, di età fra i 10 e i 18 anni, erano costretti a frequentare la scuola araba e a svegliarsi prestissimo per pregare. Non solo; papà e mamma controllavano che non si avvicinassero a quello che consideravano uno stile di vita troppo occidentale, e che stessero alla larga da internet e dai social network. Ogni sgarro, ogni marachella, ogni anelito di libertà era punito con inaudita violenza. “E' lodevole cercare di mantenere la lingua e la cultura del paese d'origine – ha spiegato Tibone durante la requisitoria – Ma la discriminante culturale non ha spazio in questo caso. La tutela del fanciullo non si discute”. Il magistrato aveva chiesto cinque anni di reclusione per il padre e tre anni e sei mesi per la madre, che non solo non si sarebbe mai opposta alle violenze, ma avrebbe fatto la “spia”, segnalando al marito i comportamenti “irregolari” dei ragazzi. I genitori, 44 anni lui e 36 lei, hanno sempre rigettato ogni accusa. “Non hanno mai chiesto scusa. Non hanno capito il danno che hanno fatto ai loro figli, oggi psicologicamente distrutti” ha detto Tibone. “La mancanza di riflessione è grave, vuol dire che non si sono resi conto di ciò che hanno fatto”. L'avvocato di parte civile, Emanuela Martini, ha parlato di “sconfitta familiare”. “Condanne di questo tipo – ha commentato – non sono mai momenti di vittoria per le parti offese, perché si tratta di fatti sempre molto dolorosi”. Questa è una storia di povertà, che si è consumata in una casa alla periferia nord di Torino, dove, in pochi metri quadrati, abitavano, stipati, in sette. Questa è una storia di scontro di “tradizioni”, come ha sottolineato l'avvocato Martini in aula: “è andato in crisi il modello culturale su cui si fondava il nucleo familiare”. Guido Savio, il difensore dei genitori, ha annunciato ricorso: “Si tratta di un vicenda che si è svolta in un contesto di assoluto degrado e disagio. Un intervento penale del genere rende faticoso, se non impossibile, rimettere insieme i cocci”.