Le malattie di cui nessuno parla

Fibroma condromixoide, monosomia X, resistenza al clopidogrel, elastofibroma dorsale. Sono solo alcune delle malattie rare che colpiscono, in particolar modo, bambini e neonati in tutto il mondo. Ad oggi ne sono state calcolate oltre settemila. In Terris ne ha parlato con il dottor Andrea Bartuli, responsabile del Dipartimento delle Malattie Rare e Genetica Medica presso l'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma; dipartimento che si occupa della diagnosi e dell'assistenza di questi pazienti con un approccio secondo il metodo del “case management” affinché la famiglia e il bambino possano avere un unico interlocutore che li guidi nella relazione con i diversi specialisti.

Dottor Bartuli, cosa si intende per malattia rara?

“Da un punto di vista scientifico, si definisce una malattia rara una condizione che non deve superare il caso ogni duemila nati. Essendo questa una definizione epidemiologica, può variare da Paese a Paese. Ad esempio: in Italia, dove non viene praticato l'aborto selettivo per la sindrome di Down, o per lo meno non in modo esteso,  questa patologia non si può definire rara. Lo è invece in quei Paesi dove c'è una selezione del feto in base alle eventuali anomalie che presenta. Di contro, le capacità diagnostiche possono rendere una malattia rara non più tale. E' il caso della fibrosi cistica che adesso viene molto ben diagnosticata grazie allo screening natale, anche in fase pre-sintomatica. Ad oggi, questa non è più una malattia rara. Va ricordato che queste patologie condividono la seguente caratteristica: sono patologie che compaiono in età pediatrica, spesso sono disabilitanti ed evolutive, alcune volte anche invalidanti. Nel corso della sua vita, un malto raro necessita di circa cinque specialisti diversi che lo assistano nella cura. C'è poi un'altra peculiarità: essendo poco conosciute, richiedono in media oltre i cinque anni di attesa per essere diagnosticate. Questo fa si che molte (circa il 30-40 per cento) non vengano accertate lasciando i pazienti senza diagnosi. A tal proposito la National Organization for Rare Disorders (un'organizzazione no-profit nordamericana) ha stabilito che ogni bambino a cui non viene diagnosticata un'anomalia entro sei mesi dalla presa in carico di una struttura sanitaria di terzo livello sia da considerare affetto da una malattia rara”. 

A che punto è la ricerca in questo campo?

“La ricerca ha fatto straordinari passi avanti, sia nell'ambito della diagnosi che in quello della terapia. Sono adesso disponibili nuove tecniche come la cosiddetta next generation sequencing per gli studi esomici che hanno aumentato notevolmente il numero di diagnosi. Questo permette di capire il meccanismo alla base di una malattia e di conseguenza anche i processi che determinano la sua comparsa. Comprendendo questo e i passaggi biochimici, è possibile capire dove poter intervenire con dei farmaci mirati. In questo senso, i progressi diagnostici sono anche terapeutici. Non solo. Oggi esistono diverse cure grazie alle case farmaceutiche che si impegnano sempre di più nel campo delle malattie rare. La legge prevede dei vantaggi per le industrie che riescono a consegnare dei brevetti più lunghi. Ma c'è anche il progresso della medicina che riesce a modificare i geni delle cellule in modo tale da correggere malattie e difetti. Tutti questi aspetti costituiscono un avanzamento nella terapia di queste malattie che, oramai, sono curabili nel 30-40 per cento dei casi”. 

Quali sono i costi? Chi sovvenziona?

“Quella della sostenibilità è una questione aperta e molto dibattuta. Esistono dei farmaci costosissimi per il servizio sanitario nazionale. Tuttavia in questo campo, tramite una migliore appropriatezza prescrittiva sia delle indagini che delle terapie è possibile reperire ulteriori risorse. Al momento sentiamo molto la mancanza di un nuovo piano sanitario nazionale per le malattie rare. Il precedente è scaduto e siamo in attesa di quello nuovo”.

La maggior parte dei pazienti è composta da neonati e bambini. Che tipo di assistenza viene data loro?

“E' un problema cruciale per due aspetti. Il primo sono gli ospedali che hanno le competenze per assistere questi pazienti che di solito chiedono la interdisciplinarità che coinvolge più specialisti di più branche della pediatria e non sono tantissimi. Ai fini dell'organizzazione interna si individua un mediatore che faccia da case manager per questi malati, che li guidi attraverso il percorsi terapeutici senza gravare sui genitori. L'altro aspetto, anch'esso cruciale, è il territorio, ancora troppo poco coinvolto nei percorsi diagnostici. Molti bambini non trovano negli ospedali di appartenenza le strutture e la facilitazioni per l'accesso alle cure riabilitative di cui hanno bisogno. Spesso i malati sono costretti ad un pendolarismo tra la propria abitazione e gli ospedali qualificati. E questo fa molto male al paziente. Se dovessi fare, per esempio, un'ora di logopedia ad un bambino e questo è costretto a subire due ore di macchina prima e dopo, le assicuro che arriverebbe isterico alla logopedia e tornerebbe isterico a casa. E' tutto da valutare il beneficio che ne riceverebbe in queste condizioni. Sicuramente c'è molto da fare per poter dare un'assistenza sul territorio. Ci sono molti bambini che sono legati a device, a strumenti per l'alimentazione o la respirazione non invasiva a domicilio: questi hanno bisogno di assistenza tecnologica in casa. Ma questa tecnologia deve in qualche modo essere garantita e/o fornita; spesso sono ospedali distanti a fornirla e questo, per la famiglia, è un grande peso”.  

La scorsa estate ebbe molta eco mediatica la vicenda di Charlie Gard. Che cosa ci insegna questa storia?

“Qualsiasi scelta terapeutica invasiva in un bambino deve essere fatta in concorso e in rispetto alla volontà genitoriale. Io per attaccare un bambino che non ha possibilità terapeutica ad una macchina devo avere il consenso dei genitori. Spesso devo coinvolgere anche il comitato etico, ma devo comunque fare un percorso di rispetto assieme alla famiglia. A maggior ragione se devo interrompere quest'assistenza: tutto, nel modo più assoluto deve essere effettuato tramite un percorso condiviso accettato dalla famiglia. Senza il consenso dei genitori mai si può realizzare una scelta terapeutica di questo genere”. 

Ritiene che la società sia poco sensibilizzata a questo tipo di malattie?

“Di malattie rare se ne parla periodicamente soprattutto in prossimità del 28 febbraio, ma comunque se ne parla anche durante l'anno. Quello che è il vuoto drammatico è l'azione politica di questo Paese: i politici italiani per le malattie rare hanno fatto e fanno pochissimo. Questo è un fatto estremamente grave perché la società civile, inevitabilmente, deve fare i conti con questi pazienti che, ad oggi, sono presenti in diverse realtà, come le scuole. Ma sono praticamente ovunque. I mass media parlano con costanza di malattie rare, sensibilizzando notevolmente l'opinione pubblica. Il caso di Charlie Gard sopra citato ne è un chiaro esempio.  Ma ad oggi, in Italia, manca in'attività legislativa mirata che in parte è stata svolta solo di recente. Il Ministro della Salute Lorenzin ha finalmente riconosciuto altre malattie rare. Ma questo ancora non basta”

Cosa chiede al nuovo governo?

Faccio una premessa: in Italia abbiamo la miglior sanità del mondo, lo testimoniano i numeri sulla natalità e mortalità infantile e sulla longevità e l'aspettativa di vita degli uomini e delle donne. E tutto ciò è gratuito. Detto ciò, per le malattie rare serve una rete realmente efficace e un superamento della regionalizzazione. Ma servono anche dei percorsi definiti per gruppi omogenei di patologie e bisogna ripensare ad alcuni centri di eccellenza per la diagnosi e la cura che devono far parte di  una rete italiana, sovra-regionale, come esiste per il trapianto o i tumori”.