Il coronavirus e la discriminazione negata

Finita la tempesta, occorrerà ripartire dalle basi comuni. E costruire una società autenticamente protesa al bene collettivo

Dobbiamo essere grati al Dott. Bertolaso quando, giorni or sono, in una intervista  televisiva – rilasciata  durante l’inaugurazione del nuovo ospedale costruito nelle Marche per future emergenze Covid-19 – ha, tra le altre cose, detto ciò che a tutti noi è ormai noto, ma che la paura  e la  vergogna ci impediscono di dire. L’ex capo della Protezione civile e ora consulente, per l’emergenza coronavirus, delle regioni Lombardia e Marche ha, con coraggio, affermato ”non dovrà più succedere quanto  accaduto in questa emergenza, che gli anziani  siano stati lasciati morire, non solo nelle RSA, ma anche negli ospedali che – di fronte ad una domanda esuberante rispetto alle postazioni e strumentazioni di cura disponibili – si sia dovuto scegliere chi curare!”. In sintesi questo il concetto espresso, e – come spesso accade – chi timidamente ha cercato di comunicarlo all’opinione pubblica immediatamente è stato silenziato.

Non risponde al vero che la pandemia colpisce molto di più gli anziani producendo in loro la morte. Sicuramente con l’avanzare dell’età subentrano delle comorbilità che rendono più fragili le persone che ne sono affette ed è indubbio e umano che ognuno di noi – messo di fronte alla scelta se salvare se stesso o i propri cari – non avrebbe esitazione alcuna. Tuttavia non è questo il tema che si vuole trattare. Il tema è piuttosto quello di evidenziare come la nostra società” – cosi detta civile e democratica, dove i diritti umani rappresentano il caposaldo” – non accetti la propria responsabilità rispetto a quanto accaduto“. Non accettare questa responsabilità significa negare la verità, e se la verità viene negata viene anche meno il principio di fiducia, e senza la fiducia nessun progresso comune può essere costruito.

Occorre il coraggio di affermarlo con chiarezza: è stato un “anzianicidio”, che si aggiunge a quella serpeggiante violenza che da anni imperversa sui più fragili, femminicidio, infanticidio, tutte derive di una società che ha perso i valori dei padri, che nega i principi costituzionali, che ingenera discriminazioni sempre più crescenti, che – negando la morte – non dà valore alla vita. Una deriva che alla cultura dell’agricoltore ha sostituito quella del cacciatore, dell’io che nega il noi, che insegue il denaro ad ogni costo, che offre agli adolescenti modelli dove le regole devono seguirle gli altri, dove la ricerca del capro espiatorio e l’improvvisazione dominano il palcoscenico del successo. Non più limiti, tutto è possibile e se tutto è possibile perché allora meravigliarci di quanto accaduto e di come tante cose siano state rimosse dalla coscienza collettiva.

Già nel 1980 Daniel Callahan preannunciava che, aumentando gli anziani e venendo sempre meno gli investimenti nella sanità – e non solo in quella ma in tutti i settori del welfare – si sarebbe dovuto prevedere” gioco- forza” un razionamento delle cure sanitarie in base all’età, presupponendo come soglia gli 80 anni (oggi l‘asticella si sposterebbe in avanti di qualche anno visto che l’aspettativa di vita si è alzata) . Ciò spiegava, non significa che la vita non ha valore, ma giunti in età avanzata la morte è prossima e non si può sfuggire, per cui – sosteneva – “le tecnologie sanitarie avanzate devono servire – considerati i costi e i tagli di investimento che ne impediscono un quantitativo idoneo rispetto alla popolazione – solo per evitare morti premature”.

Certo le sue proposte, da un punto di vista logico e razionale, sono affermazioni di come le cose in assenza di risorse strumentali sufficienti per tutti, indipendentemente dall’età, dovrebbero essere. Tuttavia, tutto ciò fa venire i brividi. E noi questi brividi li abbiamo provati e li stiamo provando perché questo razionamento è avvenuto con il coronavirus e di fronte al numero dei decessi delle persone ultrasettantenni , nel profondo della nostra coscienza, non solo abbiamo provato un grande immenso ed indescrivibile  dolore, abbiamo visto la nostra memoria falcidiata, il loro morire senza una carezza, uno sguardo di chi amavano, ma abbiamo provato anche tanta vergogna perché nulla abbiamo fatto in questi anni per impedire che le discriminazioni, non quelle normate, ma quelle reali ci cadessero addosso improvvisamente, come è accaduto.

Ci siamo svegliati all’improvviso dal torpore in cui eravamo immersi, e quella società liquida descritta dal sociologo Bauman ci è piovuta addosso facendoci  scoprire la nostra vacuità. Facendoci apparire chiaro che la vita non è per sempre, che la osannata cultura globalizzata e dominata dai poteri finanziari lentamente, giorno dopo giorno, ha eroso con il consenso di tutti noi,  a volte in maniera inconsapevole, ma non meno colpevole, le fondamenta della nostra  storica cultura centrata sulla dignità della persona umana, sulla salvaguardia del suo primato, dove gli oggetti sono per l’uomo e non l’uomo per gli oggetti, dove la solidarietà e l’amore per il bene comune non sono slogan da declamare in ingannevoli enunciati, ma stili di comportamento senza i quali nessuna comunità può essere foriera di sviluppo e di speranza per le giovani generazioni. Che solo insieme si può vincere. Lo abbiamo sperimentato  anche con  questa terribile pandemia che senza gli affetti, l’abbraccio, il calore di una carezza, senza  l’altro  ognuno di noi diventa invisibile e senza meta.

La psicologa sociale americana Janet Belsky faceva notare come il  ricorrere a tecniche sanitarie invasive capaci di farci sopravvivere, sia  già razionata nel mondo occidentale. Nella sua città, ed anche sui bambini, ci rappresenta che chi nasce prima della soglia delle 25 settimane di gestazione non riceve alcuna terapia rianimatoria, se invece le settimane di gestazione superano le 26 i medici fanno di tutto per tenerli in vita.

Il problema, quindi, del razionamento delle cure sanitarie in base all’età – quando ricorrere a tecniche sanitarie invasive – è, dunque, un tema che riguarda gli estremi della vita: il suo inizio come la fine. Questa del razionamento delle cure sanitarie è una sfida sul terreno sociale che già era presente negli passati, ma oggi non può essere più sottaciuta.

E’ assurdo meravigliarsi di quanti anziani ci siano oggi. Era un dato perfettamente prevedibile. Oggi la corte del baby  boom post bellico ha raggiunto quella età che viene definita  dagli studiosi di settore degli anziani-giovani (dai 60 agli 80 anni), a cui grazie alla qualità della vita, ai progressi della medicina, al benessere sopravvenuto, si affiancano gli anziani-anziani (coloro che superano gli 80 anni).

Ormai l’età mediana della popolazione è in progressivo aumento e così l’aspettativa di vita. Sarà un mondo più vecchio e così sarà anche nei paesi in via di sviluppo. Ciò avrà come conseguenza non solo l’incremento del rischio malattie – che ovviamente cresce con l’avanzare dell’età – ma anche quella della crescita della povertà.

Questi dati e queste tendenze – pur se ben conosciute – sono state volutamente accantonate e ignorate. Da qui i tagli alla sanità, al welfare, alle politiche a sostegno delle famiglie, dei bambini, dei giovani. Preferendo il ritorno al neo assistenzialismo e alla ghettizzazione.

Le residenze per anziani, ad esempio, vanno riformulate e ripensate, la generatività che ci accompagna sempre nel percorso di vita e che sembra sbocciare con più forza in età avanzata – come scrive Erikson – viene” uccisa” nei luoghi chiusi. Il presente è un tempo prezioso e viverlo  da anziani può – come ci dicono i cultori di questa materia – essere il periodo più felice della propria esistenza. A condizione però che i legami di attaccamento non vengano recisi, che le proprie passioni non vengano inibite, che non sia negato quel ruolo di esperienza e competenza di cui ogni anziano è portatore.

Occorre potenziare l’assistenza domiciliare utilizzando quel modello IARA che attraverso l’empatia, il coinvolgimento di tutte le figure familiari e delle risorse territoriali è in grado di garantire l’autonomia delle persone in età avanzata e di consentire l’accompagnamento pro – sociale e generativo nelle ultime fasi dell’esistenza mantenendoli nel loro abituale contesto abitativo.

Per i tanti anziani per i quali è venuta, per varie ragioni, meno la rete familiare di sostegno è necessario invece pensare spazi alternativi a quelli attualmente strutturati, quali le RSA. Soluzioni abitative di tipo familiare dove accanto al supporto assistenziale e alla presenza dei servizi necessari (mensa, lavanderia, ecc.) possa essere garantito un percorso centrato su una dimensione di vita autonoma, caratterizzata da un significativo scambio sociale e umano, attraverso occasioni di vita comune e di integrazione con il resto della comunità locale, offrendo anche spazi di scambio intergenerazionale per implementare quella trasmissione narrativa che può solidificare nelle nuove generazioni le radici della propria appartenenza culturale e storica.

Nei giovani osserviamo tutti l’assenza di resilienza ma forse una delle cause non potrebbe risiedere nell’assenza delle radici essendo stato eclissato il padre? E rotto il patto valoriale tra le generazioni?

E’ necessario tornare a focalizzare quelli che sono i sentimenti umani universali. Con  l’aumentare degli anni  si è consapevoli nel profondo di ciascuno  che la vita è un cerchio e  che si sta chiudendo ed allora le uniche cose di cui ci si  preoccupa sono le stesse che più importavano nei primi anni di vita: essere accolti, ascoltati, accompagnati ed amati.  Così, se durante la gran parte della nostra vita, ciò che occupa il primo posto per importanza è il senso di autoefficacia, quando si avvicina la fine il primato lo assume solo l’amore e il rispetto della dignità di cui ogni persona è portatore.

Forse grazie al coronavirus le nostre fragilità sono emerse, tutto è cambiato e cambierà ancora. E’stata una catastrofe ma le catastrofi rompono l’esistente, l’equilibrio in cui si era abituati a vivere, quello che – giusto o sbagliato – era il nostro equilibrio. E’necessario ora ritrovalo, ritrovarne uno nuovo.

Le catastrofi non ci dicono cosa avverrà in futuro, dipende da noi, da noi tutti, ma di certo l’avere  riscoperto il noi, le emozioni, il valore della vita, i limiti della stessa scienza, non potrà non spingerci verso un nuovo umanesimo dove insieme – forti anche della nostra cultura mediterranea, giudaica, cristiana  e dei valori dei nostri padri costituenti, in una Europa ripensata che basi il proprio agire sui principi dei fondatori – riusciremo a ricostruire una comunità autenticamente protesa solo al bene comune, dove l’odio, l’invidia sociale, l’intolleranza e la violenza appartengano ad un passato recente che vogliamo insieme definitivamente cassare. Occorre riscoprire l’anima!

A cura di:

Dott.ssa Serenella Pesarin, Sociologa, Psicologa – Psicoterapeuta, esperta nel settore penale e minorile, Presidente “Consolidal sezione romana”

Dott.ssa Maria Teresa Marino – Esperta in progettazione sociale – Socio fondatore “Consolidal Nazionale”