Crocifisso nelle aule: la parola passa alle Sezioni Unite della Cassazione

L'articolo del Centro Studi Livatino spiega il contenzioso tra un insegnante e il dirigente scolastico

Tra stop e riprese, il dibattito riguardante l’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche non ha mai conosciuto soluzione di continuità. Il Centro Studi Livatino ha pubblicato in data odierna un articolo dal titolo “Il crocifisso al vaglio delle sezioni unite della Cassazione” a firma del dottor. Angelo Sarri, testo che riportiamo in maniera integrale.

L’articolo pubblicato su centrostudilivatino.it

Torna d’attualità la questione dell’esposizione del Crocifisso nelle aule scolastiche: con l’ordinanza n. 19618 del 18 settembre 2020 (https://www.centrostudilivatino.it/crocifisso-fuori-dalle-scuole-la-questione-alle-sezioni-unite/) la Sezione lavoro della Corte di Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, rilevando nella vicenda alla medesima sottoposta una questione di particolare importanza, tale da legittimare l’assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 co. 2 cod. proc. civ.

1. La vertenza ha come protagonista FC, docente di ruolo di materie letterarie, il quale – invocando la libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa – sistematicamente rimuoveva il Crocifisso presente nell’aula assegnata alla classe ove teneva lezione, prima di iniziare la stessa, e lo ricollocava al suo posto solo al termine della propria ora. L’ordinanza chiarisce che ciò avveniva nonostante l’assemblea degli studenti avesse in precedenza espressamente deliberato nel senso di consentire che nell’aula assegnata alla classe detto Crocifisso rimanesse affisso durante lo svolgimento di tutte le lezioni. Ne era poi seguito un ordine di servizio del dirigente scolastico, che aveva imposto a tutti i docenti di attenersi al deliberato dell’assemblea degli studenti.

Per tali ragioni, la condotta di FC era stata censurata dall’Ufficio Scolastico Provinciale, il quale il 16 febbraio 2009 aveva inflitto al docente la sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento per trenta giorni, motivata dalla reiterata e plateale violazione delle disposizioni impartite dal dirigente scolastico, in conformità al deliberato dell’assemblea di classe e dal fatto che FC aveva anche proferito frasi ingiuriose nei confronti del medesimo dirigente, che di tali disposizioni aveva preteso il rispetto.

La Corte d’Appello di Perugia aveva respinto il gravame proposto da FC, sulla base delle seguenti considerazioni:

– doveva escludersi il carattere discriminatorio della condotta del dirigente scolastico, in quanto l’ordine di servizio licenziato dal medesimo era rivolto all’intero corpo docente, non al solo FC;

– l’esposizione del Crocifisso non è lesiva di diritti inviolabili della persona né è, di per sé sola, fonte di discriminazione tra individui di fede cristiana e soggetti appartenenti ad altre confessioni religiose. La Corte territoriale richiama sul punto la motivazione della sentenza pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 18 marzo 2011 per sostenere che «il simbolo è essenzialmente passivo e la sua esposizione nel luogo di lavoro, così come è stata ritenuta non idonea ad influenzare la psiche degli allievi, a maggior ragione non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e ad ostacolare l’esercizio della funzione docente»;

– il dirigente scolastico aveva imposto agli insegnanti solo di tollerare l’affissione del Crocifisso nell’aula, non certo di prestare ossequio ai valori della religione cristiana e di partecipare a cerimonie con funzioni di carattere religioso, sicché il comportamento del ricorrente non era giustificato dalla percezione soggettiva di una violazione dei diritti di libertà.

2. Il ricorso per cassazione di FC si sviluppa in otto motivi, attraverso i quali il ricorrente censura la sentenza impugnata per l’asserita violazione del principio costituzionale di laicità dello Stato, oltre che delle norme di legge che assicurano il diritto alla libertà negativa di religione e alla libertà di coscienza dell’insegnante e del plesso normativo che tutela il lavoratore da condotte discriminatorie del datore di lavoro (nella specie lamentate nella forma della discriminazione indiretta).

Secondo il Collegio il ricorso prospetta questioni di massima di particolare rilevanza «innanzitutto perché sollecita una pronuncia sul bilanciamento, in ambito scolastico, fra le libertà ed i diritti tutelati rispettivamente dal D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 1 e 2 che, garantendo, da un lato, la libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente (art. 1) e, dall’altro, “il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni” (art. 2), portano ad interrogarsi sui modi di risoluzione di un eventuale conflitto e sulla possibilità di far prevalere l’una o l’altra libertà nei casi in cui le stesse si pongano in contrasto fra loro».

La Corte è d’altro canto consapevole che «vengono inoltre in rilievo temi più generali perché, come si è evidenziato nello storico di lite, la vicenda è stata innescata dalla richiesta, formulata dagli alunni, di ostensione nell’aula scolastica di un crocifisso, e, pertanto, la risposta da dare all’interrogativo di cui al punto che precede deve necessariamente tener conto delle diverse posizioni espresse da questa Corte, dalla giurisprudenza amministrativa, dal Giudice delle leggi, dalle Corti Europee in relazione al significato del simbolo, al principio di laicità dello Stato, alla tutela della libertà religiosa, al carattere discriminatorio di atti o comportamenti del datore di lavoro che, in ragione del credo, pongano un lavoratore in posizione di svantaggio rispetto agli altri».

3. L’ordinanza di rimessione. La motivazione dell’ordinanza recupera – in termini storici – le diverse posizioni assunte all’inizio del XXI secolo dal Consiglio di Stato e dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sul valore escatologico e simbolico del Crocifisso, nonché quanto affermato da Corte EDU del 18 marzo 2011, Lautsi e altri c. Italia, nella quale la medesima CEDU aveva escluso la violazione dell’art. 9 della Convenzione «perché dalla sola esposizione di un “simbolo essenzialmente passivo” non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato».

La Sezione lavoro ritiene tuttavia che gli argomenti di cui al caso Lautsi c. Italia non esauriscano la questione al suo esame, perché la fattispecie non é in tutto sovrapponibile a quella valutata dalla Corte di Strasburgo: in questo caso il valore del simbolo viene in rilievo in relazione non all’utente del servizio bensì al soggetto che è chiamato a svolgere la funzione educativa, sicché «si potrebbe dubitare dell’asserito “ruolo passivo” qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata ed i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama».

L’ordinanza di rimessione non sembra valorizzare l’eredità più importante del caso Lautsi c. Italia, che consiste nell’individuazione del perimetro nel quale va delimitato il concetto di neutralità religiosa, essenzialmente relativo: “Si esige neutralità solo nel caso in cui lo Stato offenda i diritti religiosi personali. Se non sussiste – rispetto alle esigenze della Convenzione – offesa ai diritti religiosi personali, lo Stato non è tenuto ad agire con neutralità[1].

Un assunto che nasce anche dalla consapevolezza che “il principio di neutralità è effettivamente assai difficile da attuare in modo pieno, poiché esso deve venire implementato in un ambiente sociale che è carico di sedimentazioni storiche e dove quindi, per esempio, alcune religioni svolgono un ruolo assolutamente più rilevante rispetto ad altre[2].

Se riconosciamo, come appare corretto, che anche il laicismo ha un contenuto assiologico (secondo Puppinck la laicità é“una “visione”, una “convinzione filosofica”, alla stessa stregua di altre convinzioni e credenze che meritano rispetto[3]), allora anche nel caso in esame ha senso porsi l’interrogativo di Petrucciani: “in molti Paesi europei la festività dei cristiani, la domenica, assume un forte rilievo pubblico, mentre altrettanto non può dirsi per le festività ebraiche o per quelle dei musulmani. Cosa dovrebbero fare le leggi dello Stato per ovviare a questa indubbia non-neutralità? Le scuole, per esempio, dovrebbero chiudere in corrispondenza di tutte le festività religiose del mondo, o non dovrebbero chiudere mai?[4].

Anche per tali considerazioni la Corte EDU ha sinora riservato ai singoli Stati membri un margine di apprezzamento piuttosto ampio in materia di religione, che viene meno solo nel momento in cui, per effetto della norma interna di volta in volta sub iudice, lo Stato stesso cessa di aver un approccio pluralista.

4. Verso la rigida laicité anche in Italia? In questo senso le Sezioni Unite rischiano di trovarsi di fronte ad un evidente aporia; ma se la soluzione fosse quella di abbandonare la via tracciata dalla Grande Camera in Lautsi c. Italia, significherebbe inevitabilmente virare verso un modello di laicità “rigida” alla francese (laicité), che si declina in termini di incompatibilità con la religione[5].

L’altro tema di portata generale che il giudice remittente prende in considerazione è quello relativo alla c.d. discriminazione indiretta, principio di matrice euro-unitaria portato dall’art. 2, par. 2, lettera b) della direttiva 27 novembre 2000 n. 2000/78/CE[6], recepita in Italia dal d.lgs. 9 luglio 2003 n. 216.

Rinviando – per un inquadramento generale del tema – ai più specifici approfondimenti presenti su questo sito, è interessante segnalare che l’ordinanza in questione sembra ipotizzare una soluzione al conflitto sull’ostensione del Crocifisso (rectius, al conflitto fra la volontà espressa dagli alunni e quella del docente che nel simbolo non si riconosce) non pienamente condivisibile; secondo la Sezione lavoro, infatti, il principio della laicità dello Stato implicherebbe l’impossibilità di operare discriminazioni fra le diverse fedi e fra credenti e non credenti, che di fatto si tradurrebbe nella contrazione della volontà degli alunni in favore di quella del docente.

Ma se si muove dall’assunto che nell’aula di una classe la parete spoglia è il simbolo del non credente (è, cioè, l’affermazione della neutralità agnostica dello Stato laico, relativista e secolarizzato), così come lo è il Crocifisso per il cristiano, la mediazione fra le libertà in conflitto, di cui parla Corte, dovrebbe trovarsi prendendo le mosse non dalla sola considerazione di quanto nel caso in esame fosse necessaria l’esposizione del simbolo (come fa la Corte[7]), ma anche dalla speculare riflessione su quando ne fosse necessaria la rimozione, soppesando sulla stessa bilancia diritti e libertà di alunni e docente.

In questi termini assumono specifica connotazione, nel caso in esame, anche i concetti di criterio apparentemente neutro, particolare svantaggio, finalità legittima e mezzi appropriati e necessari, che tratteggiano la fattispecie di discriminazione indiretta nei confronti del lavoratore (art. 2 in precedenza citato).

E’ prematuro anticipare conclusioni nel momento in cui le Sezioni Unite devono ancora pronunciarsi. Ma l’ordine di servizio disatteso del docente da un lato poggiava su una deliberazione dell’assemblea degli studenti, dall’altro era stato serenamente recepito dall’intero corpo docente, eccezion fatta per FC; anche laddove nel contegno del dirigente scolastico venisse rinvenuta la fonte di un particolare svantaggio per il docente “dissidente”, sembra difficile escludere che la finalità del provvedimento fosse comunque legittima e che lo stesso costituisse un mezzo appropriato al raggiungimento dello scopo.