Coronavirus, perché è giusto maneggiare la paura

Perché il Covid-19 non deve essere solo una questione emotiva? Ne parla la psicologa Maria Rita Parsi

La paura può essere una naturale necessaria difesa per approcciare la realtà quando s’ingenera o si determina l’allarme di un pericolo relativamente ad una persona, ad una situazione familiare o sociale e, ancora, ad un’emergenza individuale o collettiva. Soprattutto se la paura ci induce ad affrontare quel pericolo, supposto o reale, con cautele utili a verificare di cosa si tratta, di quale rischio si corre, di quali sono i limiti che impone, di quali sono le conseguenze che comporta non tenerne adeguatamente conto. C’è chi, poi, in verità, di fronte all’allarme ingenerato da un pericolo, rimuove la paura per non sentirla. E, ancora, chi, invece, la ingigantisce perché proprio quella paura ne slatentizza altre, oscure, sottostanti conosciute o sconosciute.

È allora che la paura diventa panico, individuale e collettivo. Perciò, ridimensionare, come in questi giorni, si sta faticosamente facendo, la “paura-panico” ingenerata dalla possibile “pandemi” da coronavirus (Covid-19), può fornire l’occasione, non solo di tirare un sospiro di sollievo- sanitario ed economico, individuale e collettivo, ma determinare un adrenalinico processo di immediata ripresa. La ripresa di chi , dopo una grande paura, torna a sperare ma deve, però, misurarsi anche con le conseguenze, effettive e soltanto possibili, di ciò che è accaduto. Perciò, una vera ripresa non può che essere frutto di una responsabile, ulteriore conquista.  Una conquista che, per essere tale e diventare una “risorsa”, deve misurarsi con la verità delle cose. O, meglio ancora, con la ricerca necessaria ad accertare come quegli eventi si sono determinati e sul modo in cui, in futuro, si può evitare che abbiano a determinarsi.

Infatti, ogni ripresa deve anche fare i conti con gli errori, le “defiance”, i fraintendimenti, le possibili menzogne, le incompetenze colpevoli quando non con le   sprovvedute ingenuità che, ora, determinano la necessità di “riprendersi”. Come dopo un ictus, come dopo un tumore. Come dopo una caduta che, se c’è stata ed è stata grave, per non diventare un’autentica sconfitta, deve ricercare, attraverso le competenze, la scientificità, la capacità, individuale , sociale, politica, governativa e, anzitutto e soprattutto, attraverso l’analisi psicologica, sociologica dei comportamenti e delle forme di comunicazione, individuali e collettive, le necessarie difese e gli strumenti indispensabili ad impedire che un simile danno si ripeta.

Insomma, bisogna “andare a scuola” da paure e pericoli, “decriptandoli”. Ovvero comprendendone ed analizzandone, fino in fondo, il significato. Per “imparare” quel che è utile non soltanto a “riprendersi” ma a godere di una costante, ottima “salute”. Come afferma Nelson Mandela : “Io non perdo mai! O vinco o imparo!”