UTERO IN AFFITTO

Hanno un bambino che non ha nessun legame biologico con loro, ma non è una storia come le altre; non stiamo parlando infatti di un’adozione, dove l’obiettivo è la tutela di un minore che non ha più la propria famiglia d’origine o non può più vivere con essa. Qui parliamo di un neonato frutto di una gravidanza in affitto, nella quale una donna si è prestata (ma forse sarebbe più corretto dire si è venduta) a ospitare in grembo una vita per nove mesi con il fine dichiarato – e scritto in un contratto – che quel figlio che avrebbe partorito sarebbe andato a un’altra coppia. E’ accaduto in Russia, italiani i genitori committenti.

Su questo delicato tema c’è uno scontro in atto tra la legislazione italiana – che vieta questa pratica in maniera assoluta – e quella europea, che al contrario la permette. E il caso di questa coppia della provincia di Campobasso è finito al centro di una vicenda giudiziaria dai contorni internazionali.

Quello che dal tribunale italiano è stato definito un “desiderio narcisistico” di “possedere un figlio a ogni costo” – motivo per cui quel bimbo è stato tolto ai genitori che lo avevano comprato portandolo nel Molise e dato ad una famiglia affidataria – è stato invece accettato come legittimo dalla Corte di Strasburgo che ha ordinato allo Stato di pagare un risarcimento alla coppia che aveva fatto ricorso; non è prevista la restituzione del bambini (e ci mancherebbe pure, visto che un essere umano non è certo un pacco postale…) perché il piccolo, scrivono i giudici europei, ha indubbiamente sviluppato dei legami emotivi con la famiglia d’accoglienza con cui vive dal 2013”.

La vicenda può essere sintetizzata in pochi punti. 2010, non riuscendo ad avere un figlio, si decide di acquistarlo (e già questo termine dice molto dell’operazione effettuata e della sua discutibile moralità); 2011, dopo aver sborsato 50 mila euro il bimbo nasce da utero in affitto; 2013, certificata l’assenza di qualsiasi legame biologico (nonostante la presentazione di falsa documentazione), il bimbo viene tolto ai nuovi “genitori”; 2015, la Corte di Strasburgo condanna l’Italia a un risarcimento di 30 mila euro in favore della coppia.

Secondo la Manif Pour Tous Italia, associazione per la difesa della dignità della vita, “questa sentenza fa risultare normale strappare il bimbo dal grembo che lo ha generato”; così facendo – è scritto in una petizione da inviare al premier Renzi – si crea “un regime di tolleranza legale intorno alla barbara pratica dell’utero in affitto. Sfruttando tale pronunciamento ora altre coppie saranno legittimate a ricorrere a tali pratiche all’estero per poi farsi riconoscere i figli in Italia”. In questo specifico caso, poi, va detto che la madre naturale ha chiarito come sia ovuli sia spermatozoi fossero stati acquistati; cioè non si era in presenza almeno del 50% del patrimonio genetico (cosa irrilevante comunque per la legge italiana), ma si era davvero davanti a un supermarket della fecondazione al solo scopo di portarsi via un bimbo appena nato.

Polemiche e perplessità, però, non sono solo italiane o europee. I Paesi dove la maternità surrogata è legale si stanno rendendo conto delle problematiche legate a questa procedura e stanno tornando sui propri passi. In Thailandia, dopo circa trent’anni in cui la pratica è stata tollerata, il parlamento di Bangkok ha approvato una legge che vieta agli stranieri di ricorrervi. Il perché? Un orribile mercato che nel tempo si è incancrenito, portando ad episodi assurdi come quello di una giovane thailandese, la 21enne Pattaramon Chanbua, che aveva affittato il proprio utero a una coppia di australiani per circa 12mila euro partorendo due gemelli. Uno dei due però, Gammy, è nato down; ed è stato abbandonato. Uno schiaffo all’amore genitoriale. Una vita trattata come si fa con i regali fallati: un’occhiata, magari un sospiro… e via nella spazzatura.