Tragedie dimenticate
SENZA COLPEVOLI

In via Vigna Jacobini, a Roma, ci sono una targa e una voragine, la gente che vive lì nemmeno ci fa più caso. Qualcuno, in questi giorni, passa e abbassa lo sguardo per non ricordare quella gelida e drammatica notte del 16 dicembre 1998. Il silenzio rotto da un boato improvviso (“sembrava il rumore di una saracinesca abbassata velocemente, ma molto più forte e cupo” racconta un residente) e una ventata di polvere a riempire l’aria. Luci che si accendono, finestre spalancate e poi lo sgomento: il palazzo situato al civico 65 non c’è più, sgretolato come un castello di sabbia dopo aver risucchiato la vita di 27 persone, tra cui 6 bambini.

Erano le 3.06 del mattino, un’ora che ha segnato per sempre la vita di parenti e amici delle vittime. “Ho perso i miei nonni materni – dice a Interris Francesca – ci arrivò una telefonata poco prima delle 4. Quando giungemmo sul posto trovammo solo un cumulo di macerie. Sembrava una tomba. Capimmo subito che non c’era speranza”. Ora è capitano dell’esercito, nel suo cursus honorum c’è di tutto: Afghanistan, Libano e Kosovo. Ma le scene vissute nei teatri di guerra più efferati del pianeta non hanno cancellato il trauma, rimasto impresso nei suoi occhi da sedicenne. “Per anni – conclude – i lampeggianti delle sirene nell’oscurità mi hanno spaventato. E pensare che si sono state famiglie che hanno subito perdite ancora più gravi della nostra”.

targa jacobiniCome quella di Ferruccio, dimezzata dall’implosione dello stabile, i genitori e due fratelli morti. Insieme con gli altri due (entrambi vigili del fuoco) ha scavato tra i resti della struttura fino a trovare i corpi dei suoi cari. Da quel giorno la ricerca della verità sul disastro per lui è gli altri parenti è diventata una ragione di vita. Ma l’Italia non si smentisce mai. E ad oggi, dopo 16 anni, la giustizia (tra tempi atavici e prescrizioni sin troppo facili da ottenere) non ha ancora fatto luce sulle responsabilità del crollo. “Ma io non mollo – spiega – con i miei legali abbiamo deciso di presentare ricorso alla Corte di Strasburgo. Non può finire così”.

Già, non può. Anche perché la tragedia del Portuense ha creato un danno enorme a sopravvissuti e familiari, non solo morale ma anche economico. Decine di appartamenti si sono polverizzati in un istante, cancellando, per tante persone, il proprio mondo. E cosa ha fatto finora Roma Capitale? Niente. Cinque sindaci si sono alternati da allora ma le promesse di riqualificazione dell’area e di riedificazione dello stabile in altra zona si sono infrante sugli scogli della burocrazia. In via Vigna Jacobini resta un cratere circondato da inferriate, uno squarcio nella coscienza della città. Uno schiaffo alla memoria dei morti e alla dignità dei vivi. “Saremo costretti a ricostruire noi – dice amaro Roberto Anconetani, presidente del Comitato Vittime del Portuense, scampato miracolosamente al crollo – e dovremo farlo a spese nostre. Non possiamo aspettare in eterno”.
Quella del Portuense è solo una delle tragedie italiane cadute nel dimenticatoio.

In questa scia di morte e oblio c’è anche il dramma di viale Giotto 120 a Foggia. Undici mesi dopo Vigna Jacobini (era l’11 novembre 1999) il copione si ripete nel capoluogo pugliese. Alle 3 e 12 del mattino un palazzo implode; pochi minuti dopo nel seminterrato della struttura scoppia un incendio, la coltre di fumo si diffonde tra le macerie facendo fare a molte persone intrappolate la fine del topo; i soccorsi estraggono 67 cadaveri, tra cui quelli di diversi bambini. Il processo, in questo caso, ha accertato che le cause del disastro risiedevano nei materiali scadenti utilizzati per realizzare la struttura: calcestruzzo di bassa qualità, sabbia e scarti vari. A ciò si sono aggiunti gli errori nei calcoli statici e una concessione edilizia rilasciata con facilità a due contadini prestanome. L’ennesima, orrenda, eredità degli anni del boom economico. Pure qui nessun condannato (i due costruttori sono periti nel crollo e l’ingegnere responsabile era scomparso alcuni anni prima). E i familiari lasciati soli, dimenticati da un Paese che ha contribuito al loro dolore.

Come non ricordare poi il dramma di via Ventotene, sempre a Roma. Il 27 novembre 2001 una fuga di gas segnalata da giorni causa un esplosione al civico 32 mentre sono in corso le operazioni di evacuazione. Muoiono 8 persone, tra cui 4 vigili del fuoco. L’ultimo, in ordine di tempo, è l’incidente ferroviario di Viareggio. Il 29 giugno del 2001 un treno merci che trasporta gpl deraglia all’altezza della stazione della cittadina toscana. Il combustibile fuoriesce dalla cisterna e alla prima possibilità di innesco esplode. Le fiamme causano 33 vittime. Dopo 4 anni il giudizio è ancora in embrione e il Governo ha deciso di non costituirsi parte civile. “Lo Stato se ne frega di chi ha perso la vita e non gli importa della verità” ha detto Daniela Rombi, presidente dell’associazione “Il mondo che vorrei”, che riunisce i familiari delle vittime. Viareggio, come Roma e Foggia. Tragedie evitabili in un Paese civile. Ma non nella periferia d’Europa, dove al male delle inefficienze e (talvolta) delle connivenze si associa il peccato della dimenticanza.