L’eredità di Giulio Andreotti. Intervista di Interris.it allo storico della Sapienza, D’Angelo

Un Giulio Andreotti inedito emerge dall’ultimo libro di Augusto D’Angelo Andreotti, la Chiesa e la “solidarietà nazionale” (Studium). Intervista di Interris.it al professor Augusto D'Angelo, docente di Storia contemporanea e Storia del cristianesimo contemporaneo all'Università "Sapienza" di Roma

Bernabei
“I governi Andreotti del triennio 1976-1979 furono chiamati a sfide impressionanti in una delle stagioni più drammatiche della storia della Repubblica, ‘caso Moro’ compreso”, afferma a Interris.it il professor Augusto D’Angelo, docente di Storia contemporanea e Storia del cristianesimo contemporaneo all’Università “Sapienza” di Roma.

Un Andreotti inedito emerge dall’ultimo libro di Augusto D’Angelo Andreotti, la Chiesa e la “solidarietà nazionale” (Studium 2020). L’uomo politico considerato più legato alla Chiesa, e generalmente indicato come il campione dell’anticomunismo, si svela come difensore della formula di dialogo col PCI, col coraggio di provare a spiegare al papa polacco– che non crede alla “diversità” del comunismo italiano-  l’opportunità di non interrompere la collaborazione col partito di Berlinguer. Andreotti Andreotti da anticomunista a sponsor dell’intesa col Pci?

“Giulio Andreotti nei primi anni Sessanta era stato avversario della formula di centrosinistra ed all’inizio dei Settanta era contrario ad ogni apertura al Pci. Ma a metà del decennio, per volontà di Aldo Moro, fu chiamato a guidare i governi che si avvalsero dell’astensione e poi del sostegno esterno del Pci. La scelta cadde su di lui, in uno dei momenti più difficili della storia della Repubblica, perché la sua figura come garante della ‘solidarietà nazionale’ funzionava tanto nei confronti degli alleati occidentali che verso la Chiesa cattolica. In molti governi tra la fine degli anni Cinquanta e metà anni Sessanta egli era stato ministro della Difesa e gli Usa si fidavano di lui, e al tempo stesso era uno degli interlocutori più attento del mondo ecclesiale, con una rete di relazioni capillare con cardinali, vescovi, semplici preti di campagna. Non trascurava nessuno. Ma il governo con l’astensione e poi con la fiducia dei comunisti, pur in una stagione drammatica del Paese, doveva essere spiegata bene al di là del Tevere, e Moro pensò che Andreotti era l’uomo più indicato”.AndreottiPerché era così importante il dialogo col Pci?

“Dopo le elezioni del 1976 la Dc aveva il 38,8% dei voti, e il Pci il 34,4%. Il consenso era polarizzato sui questi due partiti maggiori. E data l’indisponibilità socialista a ritornare all’alleanza con la Dc senza una partecipazione comunista, non c’erano maggioranze disponibili. L’economia italiana era disastrata a causa della crisi avviatasi nei primi anni Settanta e bisognava ricorrere ai prestiti internazionali che però chiedevano riforme e contenimento delle spese; inoltre il terrorismo stava entrando nella sua fase più aggressiva. Quei problemi non potevano essere affrontati senza un’ampia collaborazione. Così nacque il governo della “non sfiducia”, un monocolore democristiano a cui quasi tutti gli altri partiti garantirono l’esistenza con la propria astensione. Il Pci comprese l’importanza di quel momento ed aderì a quel compromesso. Si riuscì così a tenere bassi i salari e gli scioperi diminuirono, permettendo al Paese di raddrizzare la situazione economica”.AndreottiE la Chiesa comprese?

“Andreotti fece uno sforzo capillare per spiegare l’opportunità di quel dialogo. Nelle sue carte sono conservate le lettere in risposta a critiche, obiezioni, accuse di tradimento, che gli provenivano da esponenti ecclesiali di livelli diversi ed anche da semplici fedeli ed elettori democristiani. E cercava anche di spiegare come il Pci stesse gradualmente evolvendo: da una posizione contraria all’integrazione europea erano diventati europeisti, avevano riconosciuto l’importanza della Nato. La speranza di Andreotti, che in fondo era stata quella di Moro, era che un maggior coinvolgimento nella guida del Paese avrebbe accelerato la parabola del Pci verso l’approdo al socialismo euro-occidentale, rendendo quel partito un partner abilitato anche a proporsi per la guida del governo, perché avrebbe interrotto i legami col blocco sovietico. Inoltre la Santa Sede apprezzò lo sforzo di Andreotti di rilanciare le trattative per la revisione del Concordato: senza quella iniziativa il nuovo Concordato del 1984 probabilmente non avrebbe visto la luce”.AndreottiPerché le cose andarono diversamente?

“Berlinguer dopo aver perso voti alle amministrative del 1978 e in vista delle elezioni del 1979 temette che il suo partito non lo avrebbe più seguito su quella strada, ed uscì dalla maggioranza che appoggiava il governo Andreotti. Dopo il voto del 1979 che vide il partito di Berlinguer perdere voti, settori della Dc erano contrari a continuare la collaborazione e puntavano a logorare ulteriormente il Pci. Non Andreotti, però. Egli si spese, anche dopo la conclusione del suo IV governo (gennaio 1979) per garantire all’esperimento di ampia collaborazione coi partiti –Pci compreso- uno spazio di evoluzione che si giovasse del riserbo della Chiesa. Sostenne la validità di quella politica anche davanti alla Santa Sede, convinto che, dato il quadro parlamentare e la forza elettorale del Pci, la collaborazione fosse necessaria per far fronte al risanamento economico-finanziario e rispondere alla minaccia terroristica che contava su una consistente area di fiancheggiamento e di consenso. Ma il Congresso democristiano del 1980 decise – con Andreotti in minoranza – di chiudere al dialogo col Pci”.