PICCHIATE E TORTURATE: VIAGGIO NELL’ORRORE DELLE SCHIAVE DEL SESSO

Ecco la storia di Maimuna, una giovane prostituta salvata dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, una delle centomila ragazze di strada vittime della tratta e del racket, raccontata da Andrea Malaguti, giornalista del quotidiano “La Stampa“.

Maimuna la salvano in un modo che buca il cuore. Perché la sua è una storia sbagliata che alla fine diventa giusta. O per lo meno sopportabile, perché in effetti «giusta» non può diventarlo più. Non si sa ancora quanti anni abbia. Ma presumibilmente, osservandola nella notte di questo sabato bagnato, mentre tiene gli occhi bassi nel gigantesco parcheggio di Perugia dove fino a pochi minuti fa si vendeva per trenta euro a clienti bavosi , non arriva a diciotto. È sottile, spaventata, piena di incubi e di freddo ed è evidente che oramai considera la sua bellezza una complicazione sgradita.

Le avevano detto: sei carina, ti portiamo in Italia e ti troviamo un lavoro. Con gli occhi grandi che hai ci sarà la gara per farti fare la baby sitter. O magari l’assistente parrucchiera. Farai i soldi, aiuterai i tuoi. Gran posto l’Europa.

È partita da Benin City quattro mesi fa. Da tre è costretta a battere per ripagare un debito di 50 mila euro che non sapeva neanche di avere contratto. «O ci dai i soldi o massacriamo la tua famiglia». Intanto hanno violentato lei, che in Italia è arrivata via mare, passando dalla Libia e adesso vuole solo che tutto finisca prima che il dolore la divori.

È diventata una delle centomila ragazze di strada vittime della tratta e del racket che si vendono per magnaccia, maman, padroni, boss e padroncini, quasi tutti controllati dalla mafia albanese, da Torino a Palermo. Il 36% di loro viene dalla Nigeria come la piccola Maimuna, il 22% dalla Romania, il 10,5% dall’Albania, il 9% dalla Bulgaria e il 7% dalla Moldavia. Le restanti sono ucraine, o magari cinesi. Le italiane (che sempre più spesso lavorano in casa) sfiorano appena l’1%. C’è crisi per tutto. Non per il commercio sessuale. Importiamo ragazzine come se fossero divani o prosciutti. Le statistiche del Rapporto Globale sul traffico di esseri umani, unite a quelle del Ministero della Giustizia fanno impressione, ma non bastano a far sì che lo Stato si muova.

Allora si muove l’associazionismo, a partire dalla Comunità Giovanni XXIII, di Rimini, quella fondata da don Benzi e che adesso si affida a don Aldo Bonaiuto, un prete quarantenne che di don Benzi era il braccio destro e che ogni fine settimana, da quattordici anni, a mezzanotte si presenta al parcheggio di Pian di Massiano, a Perugia appunto, per fare una cosa apparentemente velleitaria: pregare.

Organizza un grande cerchio con una trentina di amici, frati, volontari e due o tre ragazze che negli anni l’associazione ha portato via dal marciapiede, poi accende il microfono per le Ave Maria. Prima però grida: “Sisters, sisters, sisters, come here”, come se stesse parlando con la notte. Invece parla alle nigeriane che per mezzora lasciano la strada, escono dal bosco e dalle macchine e si uniscono a lui cantando, arrivando alla spicciolata sotto gli occhi dei papponi che guardano torvi da lontano. Stanotte sono otto. E sembrano tutte bambine.

Maimuna finisce per caso di fianco a Maleva, che è fragile come uno spaghetto e di anni ne ha 22 e da poco più di dodici mesi vive in una delle case della Giovanni XXIII. Anche lei viene da Benin City. Anche lei è stata violentata in Libia dopo avere attraversato il deserto nascosta sotto una coperta nel retro di un pick up. “Poi mi hanno chiuso in un compound assieme a centinaia di persone di cui non capivo la lingua, finché un giorno ci hanno detto: correte verso il mare, la barca vi aspetta. Ho sgomitato, mi sono aggrappata a una corda, sono salita a bordo. Non c’era cibo, non c’era acqua, solo il mare sterminato. Mi sono affidata a Dio, finché una nave ci ha preso a bordo vicino a Lampedusa. Mi hanno curato e dato da mangiare. E finalmente ho dormito. Poi sono scappata verso Torino. Credevo che là ci fosse il lavoro che mi avevano promesso. Invece c’era solo la strada”. “Ci devi 35 mila euro. Se non ce li dai indietro uccidiamo tua sorella piccola”. Piangevo. La maman, la donna che ci controllava in casa, mi ha insultato pesantemente prima di aggiungere: che piangi a fare, a tutte noi è andata così. Pensavo che volevo morire. La morte non poteva essere peggio di quello schifo. Ma è arrivato don Aldo, il mio nuovo papà. E con lui Marina, la mia mamma. E ho trovato nuove sorelle e nuova speranza. Così non voglio più morire”.

È questa la storia che racconta a Maimuna ed è come se le stesse dando dell’acqua dopo la traversata del Sahara. Anche don Aldo parla con la bambina. “Vuoi che qualche pazzo di strada distrugga la tua vita? Vuoi davvero stare dentro questo orrore? Vieni con noi. Ti proteggiamo. Ti diamo un lavoro. Ti facciamo vedere che l’Italia può essere anche un bel posto“. Lei ha sul viso un’espressione molto compresa, perché sa che ogni errore le può essere fatale. Pensa. Guarda per terra. Prende il cellulare. Si allontana dicendo, “ho un debito, come posso fare?”. Chiama la maman, è prigioniera. Quella le dice: “torna subito qui”. Ed è come se la paralizzasse. “Che succede alla mia famiglia?”, chiede Maimuna a don Aldo. “Sanno che sei in strada?”. “No”. “Non succederà niente a loro e se vieni con noi potrai chiamarli per raccontare che va tutto bene”. Sono tante quelle che la Giovanni XXIII ha salvato – salvato sì – ma tante sono scappate. E quando scappano è difficile che finisca bene. “Che cosa vuoi fare piccola Maimuna?”.

Succede raramente che una ragazza dica di sì. Però succede. “E’ la nostra pesca miracolosa”, dice don Aldo, che nel pomeriggio era seduto in una delle sue case protette per spiegare ancora una volta la guerra che combatte ogni giorno. “Abbiamo fatto anche una campagna pubblicitaria. Si chiama ‘Questo è il mio corpo’, perché il racket della prostituzione viola la dignità umana e i clienti sono complici. Quando sento parlare di ritorno alle Case Chiuse mi viene la pelle d’oca. È gente che dice le cose senza sapere niente. Assieme alle organizzazioni criminali dobbiamo punire i clienti”. Tu sei un prete cattolico don Aldo, è ovvio che parli cosi. “Lo sono. Ma sono soprattutto una persona che cerca una risposta pratica. E guardo quello che succede nel resto del mondo”. Cita i dati del Dutch Policy on Prostitution, osservatorio di Amsterdam: il 75% delle donne presenti nei bordelli olandesi e tedeschi è lì contro la propria volontà. “Non è un caso se Germania e Olanda sono in testa alle classifiche della tratta”. E poi racconta i casi di Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Irlanda del Nord e Francia dove il “modello nordico” punisce anche il cliente con multe salate. “In Svezia la prostituzione è diminuita del 65%, in Norvegia del 60%. Anche l’opinione pubblica che prima vedeva la multa come una violazione delle libertà personali oggi ha cambiato idea. Noi in questi anni abbiamo accolto più di settemila ragazze. Ottocento in questa casa. Credi che ce ne fosse anche solo una che si vendesse per scelta? Ma non importa che tu creda a me. Importa che tu parli con loro”. Loro, che in casa vivono come si fa nelle famiglie. Condividendo il cibo, le fatiche domestiche, i tentativi di rinascere, l’impossibilità di dimenticare.

Ci sono le ragazze nigeriane. E ci sono le ragazze dell’est. Nadia viene dalla Romania e porta i capelli legati in uno chignon che le lascia scoperte le orecchie. Uno gliel’hanno dovuto ricostruire. Il destro. “Me l’hanno strappato con una pinza”. Ha gli occhi mobili, inquieti. Anche se deve raccontare un incubo che ha quasi dieci anni. Era appena diventata maggiorenne. “Due persone che allora consideravo amiche, anzi parenti, sono venute a casa e mi hanno detto: in Italia c’è l’opportunità di guadagnare. Pensavo di venire a fare la baby sitter. Mi hanno sbattuta in strada. Con violenza. Io mi prostituivo e loro mi controllavano. Un giorno non ce l’ho fatta più. Volevo smettere e loro mi hanno picchiata selvaggiamente. Con un bastone. Dopo avermi strappato l’orecchio con le pinze e i capelli a mani nude. Me li hanno portati via a ciocche”. Le hanno bucato un polmone, rotto tre costole, spaccato le ginocchia. Ma quella sera stessa l’hanno costretta a tornare a vendersi. Le ferite alle ginocchia le hanno chiuse con del nastro adesivo. Era più morta che viva. Ma un cliente l’ha caricata ugualmente. È svenuta. A quel punto le sue compagne hanno chiamato la polizia. Quando l’hanno fatta uscire dalla macchina rantolava. All’ospedale i medici hanno detto solo: “Pochi minuti ancora e ci restava secca“. Oggi anche lei va in giro per strada con don Aldo a parlare con le connazionali. E a farle ragionare è la più brava di tutti. “E’ una cosa che dà un senso alla mia vita. Ma se devo andare in giro in città per conto mio preferisco ancora di no”. È bella e ferita. Si alza per preparare la cena.

La storia di Ivana è diversa solo in qualche dettaglio. La mamma alcolizzata, la vita con la nonna, la promessa di un lavoro, le botte e le lacrime. “Mi ha portata in Italia un’amica d’infanzia. Mi facevano prostituire a Lido di Savio minacciando di ammazzare mia nonna. Ed è lì che un signore mi ha tolto dalla strada e mi ha fatto arrivare a Rimini”. È costretta a portarsi dietro questa amarezza strisciante chissà fino a quando, ma giorno dopo giorno la sua vita prende una forma diversa.

Sono le dieci di sera. Don Aldo è pronto alla partenza per Perugia. Ivana guarda Maleva. “Forza, che è ora di andare”. E lo dice con un’ombra di tenerezza intorno alla bocca.

Perugia è divisa in due zone. Da una parte le bianche, dall’altra le nere. Don Aldo si ferma prima dalle bianche, parla con loro, mentre i magnaccia gli accendono addosso i fari. Le ragazze dicono: “E’ uno squallore, ma dobbiamo pagare l’affitto, mantenere il bambino”, sono turbate, sbrigative, tristi, ma nessuna di loro rifiuta il numero della Giovanni XXIII. “Chiamerai?”. “Chi lo sa”. La prossima settimana i volontari dell’associazione torneranno e, conoscendo in anticipo l’inarrivabile bellezza dei volti mai visti, se non troveranno loro parleranno con le colleghe. Intanto don Aldo sale a Pian di Massiano, la preghiera inizia, le nigeriane arrivano, e Maleva parla con Maimuna, che lì per lì si accontenterebbe banalmente di un luogo dove sia possibile sparire, ma che adesso pensa che forse esiste qualcosa di più. Don Aldo le dice ancora: “Dai vieni“. Lei risponde d’istinto: “Va bene, portatemi via” con la voce sottile. Apre il cellulare, toglie la scheda che consente alla maman di controllarla. Due papponi la guardano male, ma c’è troppa gente per intervenire. Maleva le apre lo sportello. E prima di farla salire l’abbraccia.