L’ULTIMO ESPLORATORE

Un po’ Robert Langdon, un po’ Gabriele d’Annunzio. Professore universitario, ricercatore dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, fisico, antropologo e archeologo preistorico, ha codificato una nuova materia che spinge i propri studenti oltre il confine dei libri per andare alla ricerca del genere umano, l’antropologia oceanografica. E’ esperto di diverse arti marziali, subacqueo, collezionista, appassionato di arte. Un passato anche da incursore, un presente da imprenditore per la produzione di nanodroni. Rodolfo Lama è questo, più vicino al protagonista di un romanzo che a una persona in carne e ossa. Invece esiste, cuore, cervello e passione. Per il proprio lavoro, per la sete di conoscenza.

Le sue spedizioni a Capo Horn sono diventate leggendarie, eppure ancora poco conosciute in Italia. I giornali del Sudamerica gli hanno dedicato diverse prime pagine, il museo salesiano Maggiorino Borgatello di Punta Arenas (il “paradiso” degli studiosi di oceanografia) ha intitolato una sala a suo nome, definendolo “l’ultimo esploratore” della Patagonia Australe.

E’ dal 2003 che indaga sulla genesi del popolamento delle Americhe e a breve ripartirà per l’ennesima spedizione: “Non si può fare uno studio serio di antropologia – dice – senza tornare più volte nel posto che si vuole conoscere e sul quale si vuole indagare. Nemmeno sei mesi di seguito possono bastare. È necessario tornare e ritornare per accorgersi di particolari, dettagli, tracce”.

La sua vita da studioso oscilla tra il reperimento di schegge apparentemente insignificanti, e la ricerca di modi intelligenti di usare la natura senza combatterla. E poi traversate estreme in canoa nei mari che nessuno percorre, dove le placche continentali finiscono per intersecarsi, dove le onde a mare calmo sono alte 5 metri per 200 di lunghezza.

lamaE’ alla continua ricerca di testimonianze. “Non esiste solo il passaggio dello stretto di Bering; certo lì sono passati, lo sappiamo. Ma è un fatto che il popolo americano non conosce le proprie origini, e io viaggio indietro nel tempo proprio alla loro scoperta. Non basta una vita per questa operazione; un antropologo serio sceglie un posto e lo indaga per sempre, tornandoci più volte. Non va a caccia di tesori, né di fama o gloria, ma di segni lasciati dal passaggio dell’uomo. La soddisfazione è quella di trovare un minuscolo pezzetto di un puzzle enorme che è l’evoluzione”.

Lama è un oceanista, e il suo interesse si è diretto sul popolamento del Pacifico, con particolare attenzione agli antenati degli attuali polinesiani che – secondo la sua teoria – sono arrivati alle isole Wollastone migliaia di anni fa, colonizzando l’America da sud e dando vita poi, con successivi spostamenti, a quattro popolazioni, due canoeros e due pedestri.

Nei suoi racconti c’è il fascino dell’ignoto così come quello dello stupore: quegli uomini riuscivano a fare migliaia di chilometri spostandosi su piccoli kayak, affrontando giorni di navigazione e oceani in tempesta. E lui, il professore, non è da meno.

Non è un antropologo da salotto, ma da trincea. Nel vero senso del termine. Nell’Isola di Herschel, appena prima di Capo Horn, i venti soffiano a centinaia di nodi, in un clima freddo e umido, inospitale. Alzarsi in piedi può voler dire essere spazzati via come un fuscello. Per questo scava buche nella tundra dove potersi riparare quando la natura diventa davvero cattiva… Ostile infatti, in verità, in quei posti lo è 24 ore al giorno.

LAMA5Arrivarci è già un’impresa di per sé. Prima il volo da Roma a Madrid, poi un altro fino a Santiago. Ancora un aereo da turismo per spingersi fino a Punta Arenas. Poi in barca fino a Puerto Williams, una piccola località del Cile meridionale, situata sull’Isola Navarino che si affaccia sul Canale di Beagle. Poi ancora più giù, da solo sul kayak, per ripercorrere le gesta degli antichi polinesiani… ma anche perché nessuno ha voglia di arrivare laggiù.

“Per capire servono preparazione, strumenti e istinto – racconta il prof. Lama – ma non bastano. Occorre provare ciò che i nostri predecessori hanno vissuto, per poter almeno intuire la loro storia”.

Dopo anni di lavoro sul campo, è arrivato il momento di trasferire queste conoscenze in un nuovo corso di studi, l’antropologia oceanografica, ossia lo studio dei comportamenti dell’uomo in mare. Se è difficile trovare reperti sulla terra ferma, figuriamoci quanto sia difficile far riemergere dalle acque un passato lontano migliaia di anni. E allora? Si analizzano i canti, le storie tramandate; e ancora i disegni, le incisioni. Si studiano le rotte di navigazione, quelle di migrazione, il modo di navigare, di costruire imbarcazioni. E si va per mare…

Che tipo di studente sarà quello che abbraccerà questa nuova materia? L’identikit lo traccia lo stesso Lama: “Dovrà avere una gran voglia di imparare, perché non è una materia facile, comoda, semplice. Ci vogliono basi matematiche per capire il movimento dei pianeti, una forza mentale non comune perché tutti i posti dove andrà a indagare non saranno sicuri ma luoghi estremi e pericolosi. Dovrà avere una curiosità fuori dal normale, dedurre da cose minime e apparentemente insignificanti i grandi movimenti del passato. Dovrà conoscere in maniera approfondita il mare, ed essere capace di sostenere permanenze ad alta profondità. E infine dovrà avere una propensione alla solitudine, che però devo dire è comune a qualunque antropologo”.

mareE – aggiungiamo – una preparazione da “survivor”. “Nel 2003 – racconta – sono stato senza mangiare per una settimana, perché non c’era nulla. Ci sono  un’umidità e un freddo pazzeschi, che provocano una condensa capace di alterare il cibo. Ci sono acque che abbassano la pressione e rischiano di farti collassare lì sul posto, e ovviamente non c’è nessuno che può soccorrerti. E’ difficile persino ingerire il cibo. Se si cade in acqua, ogni bracciata dà un problema alle giunture, fino a bloccarle. In una spedizione ho portato un forno solare portatile di mia invenzione…. Ma non c’era sole!”

Anni di studi e ricerche patrocinati dall’università La Sapienza di Roma, dall’ateneo De Magellanes di Punta Arenas, dall’università di Santiago del Cile. In mano, tra i tanti reperti, resta un’antichissima mappa stellare incisa su una pietra a forma conica, e un frammento di ceramica Lapita. Nel cuore la voglia di ripartire. Un viaggio che dura ormai da quasi tre lustri, sotto lo stretto di Magellano, oltre la Terra del Fuoco. ​Una fiamma che, oggi come seimila anni fa, arde nel cuore di un esploratore e lo costringe a non fermarsi mai.